C’era il calcio prima di Beckenbauer, poi è diventato un’altra cosa

Storia di un difensore che ha saputo cambiare il gioco. Con la sua qualità, ma anche con la sua leadership leggendaria.

Mio padre mi ha parlato spesso dell’uomo col braccio fasciato, del difensore che giocò col braccio legato al collo durante quella che è stata una delle partite più belle di tutti i tempi: Italia-Germania 4-3, semifinale di Messico ’70, del suo difensore preferito, almeno in una lunga fase della sua vita. Quell’uomo era il Kaiser, era Franz Beckenbauer, il libero della Germania Ovest, colui che è considerato anche oggi, nei giorni della sua scomparsa, il più forte giocatore tedesco di tutti i tempi. Le classifiche dei migliori sono strane, ma qua non ci sentiamo di contraddire. Ero bambino quando mio padre me ne parlava, soprattutto riferendosi a quella partita e ai Mondiali successivi, quelli del ’74, quelli dell’Olanda meravigliosa ma che poi vinse la Germania Ovest. Fa molto strano scrivere ovest accanto al nome di quella nazione, sembra una cosa distante mille anni fa e invece si tratta di ieri. Del resto, sono distanti pure gli anni Settanta, con i loro miti, la musica, le icone, eppure sono appena passati e Beckenbauer stando alle icone vale un David Bowie.

Immaginavo questo giocatore che gioca col braccio fasciato, lo mitizzavo, era un eroe, forse un fumetto, come era possibile? Ho fantasticato un po’ su quel racconto, fino a che papà non ha ritrovato una foto, ritaglio di un vecchio giornale, forse della Gazzetta dello sport, in cui si vede questo ragazzo con il braccio destro imbavagliato e, cosa suggestiva per un bambino, con la mano terminale di quel braccio che pare appoggiarsi sul cuore. Ah, i bambini. Finalmente, avrò avuto cinque o sei anni, mettevo una faccia sopra quel braccio, quel braccio sul cuore, un mezzobusto sulle gambe di quello che era – fino a quei giorni – il più forte difensore di tutti i tempi, e lo sarebbe rimasto a lungo. È chiaro che ognuno di noi ha i suoi preferiti, ma forse Paolo Maldini e Franco Baresi lo hanno almeno in certe fasi eguagliato; Baresi forse a Beckenbauer si è addirittura ispirato, tanto da far dire a mio padre: Baresi quando esce dall’area di rigore e imposta sembra il Kaiser.

Non esisteva YouTube e penso che sia passato qualche anno prima che io potessi vedere in azione, Beckenbauer. La semifinale di Messico ’70, e la finale di Germania Ovest ’74. Beckenbauer e Gigi Riva, Beckenbauer contro Cruijff, partite che ho visto nel tempo varie volte, alcune per lavoro, altre per passione, altre ancora per continuare a conversare con mio padre, quelle erano le sue partite. E Beckenbauer e Cruijff, insieme a Gianni Rivera, i suoi calciatori. Che meraviglia, uomini in bianco e nero e l’attimo dopo a colori, uomini leggendari. Calciatori che, come le storie tramandate di bocca in bocca, hanno tramandato nel tempo il gioco del pallone, facendocelo amare anche all’indietro, anche in quello che non abbiamo visto. Pensiamo a Ghiggia, Garrincha, Di Stefano, Schiaffino, Pelè come se fossero cosa nostra, come se cinquanta, sessanta, settanta anni fa, sugli spalti a incitarli ci fossimo pure noi. Forse è questo uno dei segreti del pallone, tenere tutti quanti insieme sotto un’unica memoria, con i piedi e gli occhi sullo stesso pallone, che a un certo punto rotola fino a te, e te lo sta passando l’uomo che giocò una semifinale del Campionato del Mondo con il braccio fasciato. Mi è capitato di conversare di recente con Milo De Angelis, poeta immenso ma anche profondo conoscitore di calcio, proprio riguardo al Kaiser. Milo mi ha detto della sua eleganza e poi si è soffermato sul suo essere epico, con quello sguardo a tutto campo, come lo era proprio quello di Alfredo Di Stéfano e di Schiaffino e ha aggiunto: un Omero del calcio. Che meraviglia.

Franz Beckenbauer, qui al centro in piedi, ha esordito in Nazionale nel 1965; un anno dopo ha giocato, da titolare, la sua prima finale di Coppa del Mondo. Ne avrebbe disputate altre tre: una da giocatore, vinta nel 1974, e due da allenatore, una persa nel 1986 e una vinta nel 1990 (Allsport Hulton/Archive)

Il motivo principale per cui vale la pena scrivere un pezzo su Beckenbauer non ha a che fare con la sua morte, della quale siamo dispiaciuti, ma ha a che fare con la sua vita e con quella parte molto lunga della sua vita che si è svolta su un rettangolo verde. Beckenbauer è stato con ogni probabilità il primo difensore moderno, capace di marcare, di presidiare l’area, di anticipare e l’attimo dopo di impostare l’azione. Libero dai compiti principali del difensore e libero di assumerne altri. Calciatore dai piedi buoni, come direbbero i telecronisti di una volta, dotato di un ottimo controllo e di grande visione di gioco. Era in grado, dopo un recupero, di uscire dall’area di rigore palla al piede, testa alta e di impostare la manovra offensiva, più che essere l’ultimo difensore, il libero – quello che copriva le spalle a tutti – diventava il primo centrocampista, quello che le spalle ai compagni le faceva spalancare. Fino al suo arrivo non si conosceva niente del genere, del resto lui aveva fatto il percorso inverso, aveva cominciato a giocare da mediano e poi era arretrato di venti metri e grazie a quei passi fatti una prima volta all’indietro è stato in grado di fare la differenza.

Non solo è stato il più forte calciatore tedesco, ma uno dei più forti difensori di tutti i tempi. Il difensore con il numero 4, (ma li ha usati tutti: il 3, il 5, il 6) numero bellissimo che al tempo era un numero da centrocampista e i numeri sempre ci confortano. Beckenbauer era alto un metro e ottantuno centimetri, uno dei più alti per quei tempi, ma se guardiamo i video sembra ancora più alto, perché si stagliava sugli altri. Portava palla a testa alta, come abbiamo visto fare a Pirlo, a Zidane, non la perdeva mai, e quando avanzava pareva espandersi, pareva toccasse i due metri, gli attaccanti si rimpicciolivano e se avessero potuto gli sarebbero stati alla larga. Quando lanciava i compagni colpiva il pallone d’esterno, il classico modo di calciare all’ungherese, un altro amore di mio padre, che da piccolo mi insegnava a calciare così, e anche da morto me lo immagino piegato che calcia in quel modo. Magari adesso è lì che triangola con Beckenbauer.

Non so se prima di Beckenbauer si parlasse di liberi che sapevano dribblare, proporsi in avanti e realizzare assist o gol di pregevole fattura, degni dei grandi attaccanti, ora che abbiamo YouTube possiamo andare a vedere i vecchi filmati, si trovano gol del Kaiser veramente belli. Il mio preferito risale alla semifinale di Coppa dei Campioni del 1974-75, tra Bayern di Monaco e Saint Etienne. Su un calcio d’angolo per i tedeschi, Beckenbauer si fa dare la palla nei pressi del vertice destro dell’area di rigore avversaria. Controlla, alza la testa (!), compie una prima giravolta d’attesa, che serve ad attrarre a sé un difensore francese, ne compie un’altra improvvisa, nella direzione opposta e lo salta. A questo punto, come se fosse Antônio Careca o Marco van Basten entra in area, si sono aperti una decina di metri davanti ai suoi piedi, fa un ulteriore controllo, è spostato sempre sul lato destro, e prima che il secondo difensore arrivi, calcia molto forte verso la porta e segna. La partita è cominciata da due minuti, all’andata era finita 0-0, se mi domandate come si indirizza una semifinale io rispondo che questo è uno dei modi possibili, uno dei migliori. Se pensate che questo gol avrebbe potuto farlo Gerd Muller avreste ragione ma non del tutto, Gerd non era così bravo nel dribbling, se dite che lo ha segnato il libero, Franz Beckenbauer, ne sapete molto del gioco del calcio. Calciava molto bene anche i calci di punizione, ha fatto una serie di cose che i difensori hanno imparato a fare dopo di lui. Hanno imparato a non avere paura con la palla tra i piedi. Dopo di lui, il gioco non è più stato come prima. E non è un caso che abbia vinto due volte il Pallone d’oro, unico difensore fino ai giorni di Fabio Cannavaro, che però quanto a impostazione non ne sapeva molto.

Tra le molte foto che ho visto passare nelle ultime ore di Franz Beckenbauer, tutte bellissime, ne ho amate due in particolare. La prima, scattata durante la finale dei Mondiali del 1974, inquadra lui e Cruijff. Franz sembra guardare in macchina, è dritto, la gamba sinistra leggermente sollevata, davanti ai suoi occhi, da qualche parte c’è il pallone. Cruijff, guarda leggermente a destra, verso Beckenbauer e più in là, verso il pallone, lui è in movimento, in un accenno di corsa. È una foto che sembra un quadro, una rappresentazione, di sicuro se dovessimo scegliere delle immagini che sintetizzano gli anni Settanta potremmo selezionarla senza aver paura di sbagliare. Ci sono due dei calciatori più forti del mondo di quel periodo, e poi due modi di vivere quegli anni e il gioco del calcio, una nazione proiettata nel futuro come l’Olanda e un’altra che si chiama ancora Ovest, che è solo la parte di un paese, che ha un pezzo del suo stesso mondo ancora separato da un muro. Quella foto è puro rock and roll.

Il mio amore incondizionato però va tutto alla seconda fotografia, l’ho vista per caso su Instagram, sull’account Tomikoshi Photography: sono due scarpini, un paio di Adidas, non le più importanti tra quelle usate dal Kaiser, ma emozionanti. Sono state usate nel 1979, nel match tra le Japan All Stars e i NY Cosmos (dove Beckenbauer era andato a giocare), la foto è scattata in un hotel di Osaka dopo la partita, ebbene quelle scarpe – ciò che può fare una foto – mi commuovono, lì dentro, poco prima, c’erano i piedi di Franz Beckenbauer, e questo è tutto ciò che so sulla capacità evocativa di uno scatto fotografico.

 

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Beckenbauer ha vinto tantissimo da calciatore e anche da allenatore. Da calciatore, con il Bayern Monaco ha vinto, tra le altre cose, tre Coppe dei Campioni e una Intercontinentale; con la Nazionale ha vinto l’Europeo del 1972 e i Mondiali del 1974. Da allenatore della Germania ha vinto i Mondiali del 1990 – unico con Zagalo e Deschamps a vincerli da calciatore e da allenatore – e ha rivinto con il Bayern, allenandolo. Infine, è stato a lungo dirigente dell’Uefa, della Fifa, della Federcalcio tedsca e soprattutto del Bayern. Però i titoli, le vittorie (che sono importantissime) non sono il motivo principale per cui lo ricordiamo così tanto, il motivo per cui tutti sappiamo chi sia.

Se io ho cominciato ad amarlo per i racconti di mio padre, come scritto più sopra, il motivo principale di questo amore va cercato nel fondo delle parole Libero, nel cuore di frasi come Ha cambiato il gioco del calcio. Sì, lo ha cambiato sul serio, dopo di lui il catenaccio e sparito, da lì in avanti i difensori sono dovuti diventare un’altra cosa e alcuni ci sono riusciti bene. Penso all’eleganza di Gaetano Scirea, al modo pulito con cui interveniva, alla classe con cui sapeva impostare, anche lui aveva cominciato come mezz’ala. Scirea meno appariscente del Kaiser, meno propenso a partecipare alla manovra offensiva, anche se tutti lo ricordiamo nella finale dei Mondiali del 1982 – e Bearzot lo rivendicava – nell’azione del gol di Tardelli, chi scambia la palla a lungo al limite dell’area, come se fossero due centrocampisti, sono Scirea e Bergomi, e la palla a Tardelli, la appoggia all’indietro proprio il libero. Scirea una ex mezzala. Pensava a Beckenbauer, Scirea, si ispirava a lui? Lo ammirava di certo, in quel tedesco aveva visto un modo diverso di giocare che gli calzava a pennello.

Penso al modo imperioso di uscire dall’area di rigore di Franco Baresi, lo abbiamo visto centinaia di volte, maglia fuori dai calzoncini, anticipo secco sull’attaccante, e poi la progressione palla al piede, fino al centrocampo e oltre. La differenza tra Baresi e Beckenbauer, la più evidente – non da poco – è la scelta che compivano nel momento in cui l’azione veniva ribaltata da difensiva a offensiva. Baresi, più o meno, a centrocampo si fermava (quasi sempre) e appoggiava a un centrocampista, Beckenbauer tornava a essere un centrocampista vero, lanciava l’attaccante, dialogava con i centrocampisti, magari arrivava fino a essere quello che concludeva. Pensava a Beckenbauer, Baresi, si è ispirato a lui? Non ci sono dubbi che sì. Baresi definito da qualcuno il Beckenbauer italiano, amato da Herzog più di Maradona, diventato bravo quasi quanto il Kaiser e il quasi rimane perché i piedi di Beckenbauer ce li aveva Beckenbauer.

E se pensiamo a quello che faceva Beckenbauer prima di ricevere palla però, più facilmente, andiamo a due centrocampisti moderni, Pep Guardiola e Andrea Pirlo, che scandagliavano il campo mentre il pallone stava arrivando, questo faceva il Kaiser, conosceva lo spazio intorno a sé e gestiva il tempo, giocava un gioco nuovo di cui aveva scritto da qualche parte le regole. Alla fine della partita Italia-Germania dei Mondiali del 1970, Gianni Brera nel suo commento scrisse: «Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti (a mi, nanca un po’)». C’è tutto Brera in questa frase, la sua ironia ma anche il profondo rispetto per il campione tedesco, che avercelo contro era meglio da infortunato.