Renato, svegliati! Serve un qualche cazzo di futuro!». «Ci sono già cascato nel futuro», ammoniva René Ferretti allo sceneggiatore, ma soprattutto a se stesso, all’inizio di quella leggendaria scena di Boris 3, epitome di romanità e di italianità. «Non mi fido del futuro». E invece il futuro prima o poi arriva: anzi il Futuro con la F maiuscola, come da apodo sempre meno sexy e sempre più caricaturale calzato da Daniele De Rossi con grande senso di responsabilità dal 2003 al 2017, resistendo a mille sirene soprattutto inglesi. Finché un giorno il Presente – nelle ingombranti vesti di Francesco Totti – s’era finalmente fatto da parte, lasciandogli due sole stagioni da primo capitano, meno di un qualunque Lorenzo Pellegrini, anche se con la soddisfazione di una semifinale di Champions League e della notte da leoni contro il Barcellona.
Il Futuro è finito: Daniele De Rossi è il nuovo allenatore dell’AS Roma. Una scelta insieme moderna e antica. Una scelta moderna perché percorre il solco degli allenatori fatti in casa, un’idea a basso costo praticata un po’ dappertutto, nella speranza che la condivisione a priori di un sistema di valori assorbito in vent’anni di carriera da calciatore valga più del pedigree e dell’esperienza. Guardiola ha aperto la strada, poi battuta con alterne fortune dai vari Xavi, Lampard, Pirlo – tutti centrocampisti di livello assoluto. Una scelta antica perché si porta dietro l’italica sensazione della corsia preferenziale, dal momento che DDR gode di solida fama di “predestinato” dal giorno in cui si è tolto per l’ultima volta gli scarpini da gioco, alla fine della sua esotica avventura al Boca Juniors. Negli ultimi quattro anni il suo nome è stato accostato a una dozzina abbondante di club di Serie A e Serie B, dal Cagliari alla Sampdoria, dal Pisa alla Ternana, dal Verona alla Salernitana del mentore Sabatini, trovando una corrispondenza nei fatti solo nei quattro infelici mesi alla SPAL, un caos, un papocchio gestionale che quantomeno – per trovare una consolazione – gli sarà servito per “farsi le ossa”.
Adesso però la gratitudine non lo salverà. Non a lungo termine. Immaginiamolo muto e pensieroso al volante, come Edward Norton nell’onirico finale de La 25a Ora, diretto per sua fortuna non verso una prigione statale, bensì verso una land of opportunity in cui ha il dovere d’immaginarsi di tutto. Pensa Daniele, mentre attraversi il deserto, a quello che ti aspetta. Vivrai un paio di mesi di benevolente apprendistato, cori, bagni di folla, attestati di stima, le recensioni positive dei vecchi mister che diranno di te «era già un allenatore in campo», sorrisi distesi di benevolente fiducia, poi i nodi dovranno venire al pettine. Per prima cosa – ma questo è semplice buon senso – dovrai ricordare l’amara lezione imparata da Luis Enrique, l’allenatore che ti folgorò nel 2011/12 ma che da Roma fu folgorato per aver cercato di avvicinarsi al sole. Insomma, dovrai evitare di “fare il fenomeno”.
Poi dovrai riuscire a offuscare l’accecante ricordo di Mourinho attraverso un’Europa League che soddisfi i nostalgici dello Special One, cui brillano ancora gli occhi e batte forte il cuore per via delle due finali consecutive contro Feyenoord e Siviglia. Dovrai disinnescare il trappolone del derby del 7 aprile, dal momento che il tuo ingombrante predecessore è saltato anche sui quattro Lazio-Roma consecutivi senza lo straccio di un gol, con rade tracce di tiri in porta. A fine maggio dovrai portare a casa un minimo obiettivo (nonostante il nono posto, la Champions è distante appena cinque punti) che ti aiuti a cavalcare la tigre e rimanere in sella anche nel 2024/25, senza rischiare la fine per esempio di Montella che nel 2011, ingaggiato come traghettatore per il post-Ranieri, non riuscì a fare il salto. In ogni caso lo sai che Roma ama essere di un cinismo smisurato nelle faccende di chiesa, di potere e di pallone – che poi spesso le tre cose coincidono, come ci hanno abbondantemente spiegato Sorrentino, Fellini e via risalendo fino a Dino Buzzati.
De Rossi non sarà un marziano a Roma alla maniera appunto di un Luis Enrique, uno di quelli che più gli ha lasciato un segno nell’anima. De Rossi conosce bene dov’è capitato, e quale gabbia di matti può diventare – e prima o poi, inevitabilmente, lo diventa. Senza perdere lo stile, avrà da percorrere petto in fuori un ambiente punteggiato di radio analisti opinionisti retroscenisti, e già da qualche ora c’è l’inviato di Sky Sport appostato sotto il portone di casa sua, e già gli ospiti in studio lo chiamano per nome come un cugino benvoluto, “Daniele”. Daniele che si porta dietro una scatola di ricordi collettivi che formano un mito condiviso, a Roma e non solo, al contrario di Totti che imponeva una robusta selezione all’ingresso da parte dei suoi gelosissimi tifosi. De Rossi è stimato ovunque in Italia, tutti noi ricordiamo il tormento del giugno 2006 con lo zigomo spaccato a McBride e l’estasi del 9 luglio successivo, con il rigore scaraventato alle spalle di Barthez al grido di “e mo’ buttace i guanti”. Il De Rossi trasfigurato in viso “co’ la vena de fori” e gli occhiacci rossi stile Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati che ringhia furibondo all’indirizzo di Gian Piero Ventura “dovemo vince, no pareggià!” nella tragica Italia-Svezia.
De Rossi col suo mitologico tatuaggio che ha fatto il giro del mondo, il segnale stradale triangolare a indicare pericolo di tackle. Più un’altra collezione privata che vi riportiamo citando letteralmente dalla biografia di Daniele Manusia uscita nel 2020, Daniele De Rossi o dell’amore reciproco: «Su un bicipite ha dei Teletubbies che stringono un cuore con il nome della figlia e le parole di “Favola”, la canzone dei Modà che usava per addormentarla. Sulla spalla ha un occhio che osserva da sopra una nuvola da cui cade la pioggia e subito sotto ci sono un cavallo e un bambino coi baffi che tiene un cuore nelle proprie mani e una palla di cuoio, di quelle che usavano i pionieri del calcio, tra le gambe. C’è una scritta latina scolpita nella pietra: “Ubi tu Gaius, Ibi Ego Gaia” ovunque tu sia, io sarò. Ci sono anche San Pietro e Castel Sant’Angelo, Pac-Man con i suoi fantasmini, una geisha inginocchiata e un cuore in negativo su un fondo di vernice nera colante. […] Nel 2016 ne è spuntato fuori un altro, realizzato a Roma dall’artista canadese David Peyote, famoso per il suo stile psichedelico: il ritratto di un uomo con una barba rossa al cui interno si staglia la silhouette nera di un’antenna radio, con una cicatrice diagonale sullo zigomo e un cappello da pescatore riempito di birra gialla». La birra che è il simbolo del cinismo romano che non risparmia nessuno, nemmeno lui che a un certo punto dell’avventura è diventato “Capitan Ceres”, alludendo a qualche suo vizio extra-campo che – sempre verba volant – era anche il motivo della sua barba improvvisamente folta, a nascondere chissà quale cicatrice.
Insomma, questo è il catalogo. De Rossi conosce benissimo gli amici e i nemici, in parte gli stessi che si è allevato da giocatore, ma sa che dovrà aspettarsene di nuovi. In un mondo che vive e muore sulla comunicazione, la stessa che ha tenuto a galla per mesi Mourinho nonostante risultati via via sempre più indifendibili, la stessa che è mancata a una proprietà americana che lo ha licenziato col silenziatore, sarà molto interessante scoprire che abito indosserà Daniele De Rossi, uomo di buone letture, di raffinatezze calcistiche, un dezerbiano moderato che però deve ancora scrivere la prima pagina del suo libro tecnico.
Da giocatore non ha mai parlato a caso e al contrario di suoi più illustri compagni di squadra (e di fascia di capitano) non ha mai rinunciato al discorso complesso, per esempio non ha avuto paura di elogiare la Juventus negli anni della dittatura dei nove scudetti consecutivi, e certe sue prese di posizione gli hanno fatto conquistare addirittura il rispetto, se non proprio la simpatia, della controparte biancoceleste. Non è capitato sulla panchina per caso, se già nel 2017 diceva alle pagine proprio di Undici che, senza fretta, lui ad allenare ci pensava: «Vedo tanti giocatori dire: io l’allenatore mai, quando smetto sto in vacanza una vita. Poi, dopo sei mesi, farebbero qualunque cosa per allenare anche in Serie C. Io, invece, non lo escludo. Sono fortunato. Ho avuto due tra i dieci allenatori migliori del mondo: Spalletti e Conte. Il terzo è Luis Enrique. Con un altro, Guardiola, ho giocato, e se dovessi prendere una panchina chiederei di andare a guardarlo per imparare. Sì, l’allenatore potrebbe essere una cosa che mi piacerebbe fare. Non subito, ma con i tempi giusti mi potrebbe interessare».
Poi capiremo i suoi princìpi di gioco, non tutti conciliabili con una rosa dispendiosa ma incompleta in diversi settori, a cominciare dai famigerati esterni che hanno fatto la sfortuna dell’ultimo 3-5-2 di Mourinho, incapace di cambiare spartito e sempre regolarmente impiccato ai vari Kristiansen, Zalewski, Celik. Adesso siamo ancora dalle parti del sentimento, dell’emozione, del romanzo popolare giallo e rosso iniziato nella pancia della mamma ai tempi dello scudetto di Liedholm, poi quasi 18enne il giorno di Roma-Parma del 17 giugno 2001, la stessa partita che 18 anni dopo – 26 maggio 2019 – lo ha visto salutare per sempre l’Olimpico con la maglia numero 16.
Non potrà risolverla con una scivolata o uno scaldabagno da 25 metri, e presto o tardi scoprirà che l’unica via di salvezza è andare per conto proprio, in sapiente equilibrio tra l’autonomia di pensiero e la calcolata furbizia di stare dalla parte giusta, più avveduto di un Pirlo, meno macchiettistico di un Gattuso, indubbiamente più cool di un Inzaghi o di un Gilardino che arrancano nella colonna di destra, mentre DDR ha i giusti agganci per allenare subito nella ZTL della Serie A. Il cinismo di questa città ingiallirà presto anche i frammenti più ispirati del grande Instagram mourinhiano: ma da oggi pomeriggio, citando il Poeta, di nuovo c’è un cuore che batte nel cuore di Roma. Basterà a non cadere nella trappola del Futuro?