Perché Daniele De Rossi piace proprio a tutti

Il suo ritiro riguarda tutti noi, non solo i tifosi della Roma.

L’hashtag #DeRossi non è già più nella top 10 delle tendenze di Twitter. Lo è stato, per pochissimo, solo nelle ore immediatamente successive all’annuncio dell’addio al Boca Juniors e del ritiro dal calcio giocato del centrocampista di Ostia, avvenuto in un’improvvisata conferenza stampa che ha ricordato, nei suoi contorni minimalisti – seppure, naturalmente, meno carichi dal punto di vista emotivo –, quella con cui si è congedato dalla Roma. Poi più nulla, tutto è stato fagocitato dai trend topics relativi a Cristiano Ronaldo, Lukaku, Conte e alla diciottesima giornata di Serie A.

Tra i contenuti più cliccati e condivisi, inizialmente anche più del tweet ufficiale della Roma, c’è il video – registrato con un cellulare in maniera rudimentale mentre le immagini scorrono sullo schermo di una tv – relativo alla partita Italia-Svezia, giocata a novembre 2017. Nella mezz’ora finale del match, quando la paura di non qualificarsi al Mondiale russo diventava realtà, uno degli assistenti del ct Ventura chiede a De Rossi di iniziare il riscaldamento. La prossemica successiva di De Rossi – ben più del «Ma che cazzo entro a fare?! Dobbiamo vincere, non pareggiare… Fate entrare Lorenzo!» che gli sarà attribuito – assomiglia a quella che avremmo avuto tutti noi di fronte alla materializzazione di un evento imponderabile, ovvero una grande manifestazione calcistica senza Italia e senza l’Italia: una reazione genuina, sanguigna, che definisce De Rossi come leader emozionale prima ancora che tecnico, e che contribuisce ad alimentare la sua immagine di giocatore trasversale. Un’immagine che, in realtà, non dovrebbe appartenere a un professionista che ha legato la sua carriera a una sola squadra, anzi a una sola città.

Eppure provare simpatia – da intendersi, nel senso greco del termine, come la condivisione di emozioni e stati d’animo – per De Rossi è del tutto istintivo, quasi naturale. Perché De Rossi non è (stato) solo quel gesto di ribellione all’ordine costituito che chiunque avrebbe fatto in quel momento, ma anche quel tatuaggio sul polpaccio tanto in voga nei campi di periferia, quella barba hipster senza la quale è ormai impossibile immaginarlo, quel suo rendere omaggio agli avversari che gli hanno impedito di alzare i trofei che avrebbe meritato – «Vogliamo vincere, vorremmo vincere ogni tanto anche noi, ma bisogna essere realisti e capire che abbiamo di fronte una squadra che ha fatto la storia del calcio. Forse lo capiremo tra tanti anni», disse della Juventus di Allegri –, quel suo assumersi le proprie responsabilità quando si è trattato di pagare pegno ai lati oscuri del suo carattere, sfociati in comportamenti (auto)distruttivi per sé e per gli altri. Facendo per una volta aderire alla realtà quella narrazione da “uno di noi” che, ancora oggi, costituisce l’equivoco alla base della valutazione del rapporto che può (o non può) intercorrere tra un calciatore professionista dell’era contemporanea e il suo pubblico.

De Rossi è stato protagonista assoluto in un contesto fortemente divisivo e polarizzante come la Roma calcistica, eppure non è un paradosso che sia amato e apprezzato anche, se non soprattutto, dai tifosi delle altre squadre. Questa contraddizione sembra essere alimentata anche dalle sensazioni trasmesse dallo stesso De Rossi, che si è fatto percepire come un uomo-calciatore consapevole di aver trovato il proprio posto nel mondo, di essere arrivato – al netto di presenze, gol, vittorie e sconfitte – esattamente dove voleva arrivare, nonostante non si sia mai allontanato (geograficamente) dal punto di partenza.

«Vivo con un continuo saliscendi tra la voglia di vedere cose nuove e il bisogno di stare qui. Ma a 33 anni sono arrivato con la serenità sia del non aver vinto tanto sia di non aver girato tanto», disse in un’intervista del 2017 pubblicata sul numero 15 di Undici.  Ecco, la sensazione è che De Rossi oggi dica basta dopo aver visto e fatto quello che ieri rimpiangeva di non aver ancora visto e fatto, pur non essendo cambiata quella condizione di inamovibilità da Roma e dalla Roma cui, a volte, sembrava quasi “condannato”. È un discorso relativo a una diversa maturità, a una nuova consapevolezza che De Rossi è riuscito a manifestare come uomo e come professionista. Un aspetto che è impossibile da non ammirare, come si percepisce per ogni messaggio di commiato, anche sui social: molti di questi cominciano con la puntualizzazione di un tifo diverso, non romanista – “da juventino”, “da interista”, “da milanista”, “da napoletano” –, eppure non sono frasi fatte e/o banalizzanti, ma tributi sentiti e sinceri alla grandezza di un giocatore-icona per una generazione di italiani. Non solo e non necessariamente romanisti.

De Rossi ha disputato 117 partite con la Nazionale maggiore. Con i suoi 21 gol, è il 12esimo giocatore più prolifico della storia azzurra, primo tra quelli che non hanno ricoperto ruoli offensivi (Alex Grimm/Getty Images)

Proprio nei confronti dei tifosi della Roma, De Rossi ha pagato un prezzo troppo alto in termini di affetto dato e non sempre restituito. Questo è il reale grado di separazione tra la sua carriera e quella di Francesco Totti, ben oltre le nubi che si sono addensate nella parte finale di un rapporto già discontinuo di suo. De Rossi – capitano in pectore ma che lo è stato, de facto, solo in due stagioni su 18 da professionista – non è riuscito ad essere “romano e romanista” come solo Totti sapeva e poteva essere, alimentando quel cortocircuito di fondo che faceva in modo che non gli venisse perdonato (quasi) nulla mentre all’altro era perdonato (quasi) tutto.

La diversità tra i due uomini simbolo della Roma degli anni Duemila non è declinabile in termini di migliore peggiore, ma ha fatto in modo che da De Rossi si pretendesse quell’adesione totale a canoni etici e morali tipici dell’idolo pagano che non poteva, e forse non voleva essere. O, almeno, non nel modo che avrebbe permesso una completa e totale identificazione tra lui e la sua comunità: «Le radio, i giornali, l’estrema passione che c’è in città ogni tanto portano a superare i limiti. Secondo me hanno fatto un danno, hanno stravolto quel senso di romanismo che esisteva un tempo. Il romanista prima difendeva sempre un altro romanista, difendeva il proprio giocatore anche se era il più scarso. Era proprio una famiglia, qualcosa che univa tutti quanti perché “noi siamo romanisti, noi siamo romani, noi siamo una cosa diversa da voi”. Adesso c’è una facilità nel dividersi per qualsiasi cosa che se non ha portato meno punti in campo sicuramente non ha aiutato a vivere meglio quello che si faceva» confessò, non senza amarezza, a Walter Veltroni sul Corriere dello Sport.

Con la maglia del Boca Juniors, De Rossi ha disputato sei partite in tutte le competizioni, e ha realizzato un gol (Marcos Brindicci/Getty Images)

Anche in virtù di questa considerazione di Roma e dell’ambiente romano e romanista, De Rossi è riuscito a sdoganare qualcosa che non appartiene alla cultura sportiva latina, italiana in particolare: l’ammirazione, talvolta persino il tifo, per un giocatore diverso dalla propria squadra del cuore. È così, è per questo che la sua fresca leggenda va ben oltre quella relativa al modo di giocare, già di per sé enorme, in quanto ha portato avanti di vent’anni la figura italiana del box-to-box player incarnata da Marco Tardelli e poi, subito dopo di lui, da Claudio Marchisio. Nel passato più o meno recente solo Roberto Baggio ha unito così tanto e così tanti nel momento del ritiro. Ma Baggio era un “calciatore di tutti” quasi per diritto di nascita, per quella sua iconografia legata alla mistica dell’azzurro della Nazionale; De Rossi è diventato “di tutti” restando semplicemente se stesso. Visceralmente romanista eppure amato da chiunque, anche da chi non è romanista. Perché per chi è simpatico, e trasversale, funziona così.