È il decimo minuto di Milan-Roma quando Yacine Adli riceve palla a pochi passi dal limite dell’area avversaria. Nessuno si è accorto di lui. El Shaarawy, invece di seguirlo, è andato a raddoppiare su Reijnders, che scarica proprio sul centrocampista francese. Su cui esce Kristensen, sicuro che Adli lascerà partire il tiro. Invece Adli rientra sul sinistro e incrocia basso alla sinistra di Svilar. La palla passa in mezzo alle forbici di Celik e Paredes, che in scivolata provano a intercettare il tiro, rischiando di finire come Will Ferrel e Jon Heder in questa scena del film Blades of Glory. È il primo gol di Adli con il Milan. E arriva dopo una stagione e mezza di panchine, sprazzi di luce e misteri buffi. Il Milan vincerà la partita per 3 a 1, scacciando i fantasmi dell’ultimo Milan-Roma, quando la rimonta giallorossa segnò l’inizio di una crisi di risultati poi alimentata, si dice, anche da uno spogliatoio ribollente, esploso proprio al termine di quella partita. Adli non era in campo, quella sera. Ma avrà assistito al volo di stracci col cuore ferito. Troppo in basso nelle gerarchie per dire o fare qualcosa. Impotente e coinvolto come un ragazzino di fronte ai genitori che litigano. Ora invece è lì, a esultare con la dignità e il trasporto di chi ha lavorato duramente per arrivare a quel punto. È anche per questo che i tifosi milanisti gli vogliono bene.
Il suo attaccamento al Milan è una cosa nota. Le cene organizzate a casa sua per fare gruppo, le immagini di lui in prima fila, sotto la curva, ad ascoltare il rimbrotto dei tifosi, la sua felicità a ogni gol dei compagni. Contro la Roma, finalmente, è toccato a lui. Aveva gli occhi lucidi, mentre celebrava il momento più bello e più alto della sua carriera in rossonero – almeno finora. Un dettaglio che non può non smuovere un po’ di empatia nei suoi confronti, anche perché la sua non sembra emotività spicciola. Il suo tenere alla maglia è qualcosa di sincero e speciale, un attaccamento vero.
Qualcuno sostiene che i tifosi reputino Adli una mera mascotte. O che lui, conscio che questa cosa possa allungargli la permanenza al Milan, stia appunto interpretando un ruolo. Vabbè, è internet. Vi si legge tutto e il contrario di tutto. Ai tempi in cui Adli non giocava mai, circolavano teorie di ogni sorta. Dal sempreverde e volgare “Si è fatto la figlia dell’allenatore”, al più ponderato “Pioli lo vede tutti i giorni, non lo riterrà pronto”. Io personalmente pensavo che ci trovassimo di fronte all’incarnazione di un bug di FIFA, quello che si verifica quando nella modalità carriera il proprio alter ego virtuale passa tutto l’anno in panchina perché la squadra in cui milita gioca con un modulo che sulla carta non comprende il suo ruolo. In Adli rivedevo perciò la mia stessa sfiga, anche se nel suo caso non era un’incompatibilità tattica, il problema, o l’assenza di versatilità. Adli, d’altronde, sa giocare in ogni zona del centrocampo. La massiccia concorrenza, piuttosto è stato il principale motivo del suo scarso utilizzo. E nel corso delle sue fugaci apparizioni, benché riuscisse a illuminare il campo con tipologie di giocate che a San Siro non si vedevano da anni, Adli ha palesato alcuni suoi limiti. Tra tutti, una lentezza che mal si sposa con i ritmi voluti da Pioli. Talvolta poi non sono mancati errori, o episodi sfortunati, che hanno alimentato la sensazione che avesse lacune ancora troppo grandi per ambire a giocare con continuità. Come quando contro il Cagliari ha perso palla nei pressi dell’area di rigore milanista, dando modo agli avversari di arrivare in porta e segnare.
Per questi motivi, e per l’imprevedibile cadenza con la quale veniva impiegato da Pioli, fino a poco tempo fa ogni presenza di Adli era per me un’occasione speciale, qualcosa da assaporare come un’eclissi. Ogni partita poteva essere l’ultima. Per questo era divertente e doveroso trovare significati e note memorabili in un flusso di episodi ordinari. Per esempio, Adli che contro la Juventus tenta un dribbling e costringe Weah al fallo, facendolo ammonire. O Adli che, contro il PSG, quasi si conquista un calcio di rigore. Cose di questo tipo, in attesa della fiammata. Di quel qualcosa che ci avrebbe fatto esclamare, con verve beckettiana: «Avevamo ragione: ci eravamo sbagliati».
Perché Adli non è il pacco mostruoso descritto dagli hater o il campione incompreso dei campioni incompresi teorizzato da chi vede in Pioli la causa di tutti i guai del Milan. Adli, piuttosto, nel mosaico di idiosincratiche interpretazioni che possiamo darne, è questo: un buon giocatore, un’onesta riserva, ma soprattutto un personaggio positivo, capace di vivere con incrollabile ottimismo ed energia anche la più spigolosa delle situazioni. E che ispira simpatia. In un mondo dove molti giocatori avanzano pretese senza averne i gradi, o fanno drammi al primo torto subito, la pazienza dimostrata da Adli è un inno a quell’operosità silenziosa che può e dovrebbe suscitare ammirazione anche nell’animo del più nostalgico e severo e frustato essere umano con accesso a internet. Poi certo, il suo primo gol non cambierà il calcio o la stagione del Milan, ma è il coronamento di una piccola parte del percorso, la fine di un lungo prologo, la risposta – per quanto temporanea – alla domanda che eternamente adombra la carriera di ogni calciatore. E cioè: «Vale o no la maglia che indossa?».
Per ora, e almeno fino alla prossima partita, Adli varrà la maglia del Milan. Varrà il suo posto da titolare. Un posto che si è preso anche in virtù della crisi legata agli infortuni, mai come quest’anno drammatica. Lui, uno dei pochi risparmiati dalla maledizione del flessore, ha ora l’occasione di ritagliarsi un posto stabile da co-protagonista, con un minutaggio sempre più corposo. Anche contro la Roma, dopo la gara contro l’Empoli e quella contro il Cagliari in Coppa Italia, è stato impiegato per tutta la partita, uscendo all’89’ solo per prendersi gli applausi del proprio pubblico. C’era contentezza per la vittoria, ovviamente, ma anche per lo stesso Adli. Che si sta esprimendo bene nel ruolo di regista – dove fa cose anche molto belle, tipo lanci dal cerchio di centrocampo o cambi di gioco impeccabili – ma sarebbe interessante vedere anche da trequartista puro, magari in un sistema a due punte. Oppure, comunque, in una zona dove la sua fantasia nei passaggi e la sua propensione al dribbling possano essere espresse senza il timore che un’eventuale perdita del pallone risulti fatale. Libero dai compiti difensivi, più vicino alla porta, capace di esaltare al massimo la propria capacità di creare filtranti per i compagni. Un posto dove possa essere più fulmine che faro.
Il gol con la Roma, ma anche tante altre giocate niente male di Yacine Adli
Ma si fa per parlare. Come si diceva all’inizio, questo Adli è il comprimario perfetto del Milan-Moneyball. Ed è difficile credere che possa ambire a un ruolo diverso da questo, in campo e nelle gerarchie dell’allenatore, o che qualcuno decida di costruire un sistema attorno a lui. Per quanto ridimensionata rispetto ai fasti del passato, una piazza così grande sembra ancora troppo grande, per Adli. Al netto delle sue qualità e del suo talento, che rimane il talento di un calciatore che sa praticare un calcio pulito: vagamente rétro palla al piede, ma pure fisico quando necessario. Può ancora crescere, uscire definitivamente dal sottobosco degli acquisti misteriosi, dimostrare che ci sbagliamo ancora, che può essere un dignitosissimo titolare. Quando la sua avventura e il suo impiego al Milan sembravano tutto tranne che una cosa sensata, è stato lo stesso Adli a dargli un senso. Partendo dai piccoli gesti di contorno, passando per le giocate in mezzo al campo nei ritagli di tempo, fino al gol di Milan-Roma. E gli occhi lucidi, il salto in aria, le mani congiunte a formare un cuore. Se c’è una morale, nella piccola storia di Adli al Milan, è quella banale ma funzionale dell’essere perseveranti. Del non smarrire la parte migliore di sé stessi, nonostante si fatichi a essere visti.
Per questo, oltre a tutte le cose di cui abbiamo già parlato, Adli è un giocatore benvoluto dai tifosi. Anche dai non milanisti. C’è qualcosa in lui che ci ricorda il nostro lato perdente o sfigato, ma pure quello determinato, sospinto da un orgoglio sano, che non sfocia nel vittimismo o nella pretenziosa polemica, ma nel rimboccarsi le maniche e nel dare il meglio di sé benché le circostanze siano avverse. Qualcosa che ce lo fa tifare, sostenere come sosterremo un outsider che è tutto tranne che un fico, un Gary Stu, o il classico protagonista talentuoso ma cringe di un anime per ragazzi. Agli occhi dei tifosi, se Krunic è l’antipatico cocco dell’insegnante, Adli è il compagno che ti passa i compiti o la risposta durante l’interrogazione. Un giocatore versatile e una persona poliedrica, stando alla sua pagina Wikipedia, dove è scritto che sa suonare il pianoforte e sa giocare a scacchi. Cose che di sicuro lo hanno educato alla pazienza e alla passione. La stessa che ha immesso in ogni frangente della sua avventura milanista, esempio di quanto davvero conti di più il viaggio, rispetto alla meta.
E nel suo viaggio, il primo gol ha rappresentato un punto. Se di svolta o meno, questo lo deciderà il futuro. Per il momento, è servito a rendere compiuta questa parte della storia. Qualcosa che tutti i suoi tifosi si auguravano. Se non altro, per non rivivere sotto altro interprete la sindrome da notti bianche che l’anno scorso colse in vittima De Ketelaere. Qualcosa che tutti, sotto sotto, stavano aspettando. Lui per primo, immagino. Ma pure io. Perché la sua rete, oltre a indirizzare la partita, mi ha offerto l’espediente narrativo che stavo attenendo da tempo per poter scrivere della sua vicenda. Una sottotrama minore da nota wallaciana, ma non per questo meno interessante, meno degna di essere narrata. Magari pure in medias res. Ai corsi di scrittura insegnano che un incipit come quello usato in questo articolo è tanto efficace quanto abusato, e che dunque è buona creanza concedervisi una tantum, diciamo un pezzo ogni dieci. Ho ritenuto però fosse giusto usarlo in questa occasione non tanto per togliermi uno sfizio, ma perché il momento in cui la parabola di Adli ha toccato il suo primo apice andava raccontato ed esaltato senza sfumature. Dandogli la luce netta e classica di cui finora non ha goduto. Di storie come la sua il mondo del calcio ne ha bisogno. E pure il mondo, ne ha bisogno.