A Gigi, protettore di banditi e pastori

Ricordo di Riva: il più grande era anche il più fragile. Ha scelto Cagliari quando nessuno l'avrebbe fatto, fino alla fine.

Con Gigi Riva se ne va l’ultimo dei ribelli, un irregolare per sottrazione, uno che non ostenta e non millanta, uno che quando ha potuto ha sempre tolto: retorica epica poesia. «Ma no, niente: ho visto il pallone arrivare, l’ho colpito, mi è andata bene». Selvaggio e sentimentale, lascia potenza e bellezza. E una rabbia, mio Dio, «una rabbia che è la rabbia che fanno gli amici», come diceva di lui Pierpaolo Pasolini. «Parlo della rabbia dovuta alla sua rinuncia, alla sua fuga, alla sua assenza». Ma non furono né rinuncia né fuga, furono scelta e ostinazione. Gigi Riva più sardo dei sardi, Gigi Riva e il gran rifiuto a Gianni Agnelli, Gigi Riva e quello scudetto vinto «per noi, banditi e pastori». 

Il suo Cagliari era una rivoluzione sghemba, un galeone pirata in mare aperto costruito da un bucaniere come Andrea Arrica, che Riva lo ha soffiato al Bologna grazie a un blitz corsaro; e guidato da Manlio Scopigno, «un professore quarantacinquenne che per caso insegna calcio anziché Hegel», come scrisse il suo amico e tifoso Luciano Bianciardi. «Era un’ira di Dio», ha detto a caldo Dino Zoff durante la lunga bellissima diretta che Videolina ha dedicato alla morte di Riva.

Sono voluti intervenire in tanti: Capello, Boninsegna, Tardelli, Sacchi. Racconta Gigi Piras, bomber anni ’80 di un Cagliari spesso con l’acqua alla gola: «Quando noi ragazzi siamo arrivati in prima squadra ci fermavamo con lui a calciare in porta, a fine allenamento. Sembrava un sogno ma se provavamo i tiri a giro Riva se ne andava negli spogliatoi. Ci diceva: “Chiamatemi quando avete finito di fare le seghe al pallone”». Per Riva tutto doveva essere forte, tutto a cento all’ora, meglio se a duecento. Era capace di alzarsi da tavola e lasciarli tutti lì, al Corallo, per andare lungo costa sull’Alfa 1600, a disegnare le curve della litoranea per Villasimius. «Qualche volta ci ha fermato la polizia», ha detto Boninsegna, «ma gli hanno chiesto l’autografo». 

In molti hanno pensato che sarebbe morto giovane. Di suo non teneva nulla, conservava tutto la Fausta, amata sorella, giornali ritagli premi ricordi. Riva aveva in garage soltanto due scatoloni: uno per Lorenzo Bandini, il pilota morto tra fiamme e lamiere a Montecarlo, l’altro per Luigi Tenco. Anche il suo sembrava un destino segnato da eroe tragico. E invece ha vissuto. Ci ha mostrato come da eroe si diventa mito: scomparendo, in un mondo in cui ci si scanna per apparire, in assenza, stavolta sì, come Mina come i grandi. Parlando poco quasi niente, per lo più camminando, sinché ha potuto, nel centro di Cagliari, con quel suo passo lungo ampio deciso, la sigaretta in bocca sempre, un sorriso e un saluto a chi lo chiedeva. Per anni lo abbiamo visto passare stretto nel cappotto, bello come un divo. Hud, lo chiamavano i compagni, come Paul Newman in Hud il selvaggio

Per l’Italia è stato l’Angelo Azzurro, il più grande bomber della storia della Nazionale, 35 gol in 42 partite, roba da pazzi. Un europeo in bacheca, una finale mondiale persa contro un Brasile ingiocabile, pochi giorni dopo la partita del secolo con la Germania, e due gambe rotte perché la gamba non si toglie mai, va bene?

Per i sardi è stato padre figlio fratello, amico fragile. Arrivano sui nostri telefoni messaggi di cordoglio come fosse morto uno di casa. E in effetti ho sempre confuso l’anno di nascita di Riva con quello di mio padre, che invece era tre anni più giovane. Riva e papà, li avevo come sovrapposti e oggi mi arrivano gli stessi messaggi di quando è morto lui. Forza, mi scrivono, oppure mi dispiace, coraggio. E io però stavolta ricambio: grazie, rispondo, stringiamoci tutti, non disuniamoci. 

Gigi si è mostrato l’ultima volta l’anno scorso per la proiezione del film che gli ha dedicato Riccardo Milani («Ma dura ancora molto ‘sto film?»), e si è mostrato fragile, lui che è stato un’ira di Dio. Ha parlato di depressione, la sua, che lo ha accompagnato tutta la vita, vita da orfano, un padre trapassato da una scheggia di ferro in fonderia, una madre morta prima che Riva diventasse Riva. L’infanzia il collegio gli incubi le fughe. Un buco nell’anima e il rifugio in una Sardegna rinnegata. Non ci voleva venire, non ci voleva restare, non se n’è andato più. Erano gli anni ’60, il presidente della Regione si chiamava Paolo Dettori e così parlava di quella che per tutta Italia era la “questione Sardegna”: «Nei primi otto mesi del 1966 si sono avuti in Sardegna 17 omicidi a fronte dei 29 commessi in tutto il 1965, dei 23 del 1964 e dei 42 del 1963. Sempre in questi otto mesi, si sono avuti 8 sequestri di persona, a fronte dei 6 del 1965 e dei 4 del 1964». Non era la Sardegna delle vacanze. Riva non ci ha scelto a luglio e agosto. Ci ha scelto e basta, mentre il governo mandava sull’isola i Baschi Blu, un migliaio di uomini scelti tra i reparti speciali di polizia e carabinieri. 

Riva ci ha scelto e ci ha difeso e ha fatto di noi i più forti di tutti, almeno per una sola schifosa maledettissima volta. È stato di parola, spesso contro i suoi stessi interessi, come certi selvaggi come certi ribelli, come i pazzi. «Se non avessi fatto il calciatore? Avrei fatto il contrabbandiere».