Non c’era niente di normale, nella Lazio di Chinaglia e Maestrelli

A cinquant'anni dallo scudetto, una docuserie Sky, Grande e Maledetta, ha rinnovato il ricordo di una squadra irripetibile.

Lalaziodel74. Tutt’attaccato. Cinquant’anni fa. Un altro mondo. Non a caso quella squadra vinse lo scudetto il 12 maggio del 1974, giorno del referendum abrogativo per il divorzio: una pagina storica della vita politica nazionale. Due anni prima della Coppa Davis vinta dall’Italia nel bel mezzo delle polemiche per la trasferta nel Cile del dittatore Pinochet. Quella Lazio potrebbe essere raccontata in mille modi. È una fucina di storie, aneddoti, tormenti. Inserita in un contesto magmatico qual era l’Italia all’epoca. La Lazio di Chinaglia era un’immagine del Paese. Non la fedele rappresentazione. Ma certamente ne incarnava un aspetto. Un’Italia violenta in cui stavano rapidamente cadendo le impalcature socio-familiari che a lungo erano state considerate insindacabili. Da noi il Sessantotto era ovviamente arrivato in ritardo e aveva portato con sé uno spirito eversivo che sfociò in quelli che passeranno alla storia come gli anni di piombo.

Quella Lazio è stata probabilmente la squadra più sensibile dell’epoca, e non solo. Sensibile nel senso di ricettiva. Era un’altra epoca, è vero. Al sabato le squadre andavano al cinema, oggi sarebbe impensabile. Seppure immersi negli anni Settanta, i calciatori facevano comunque vita a sé pur non non incarnando esistenze dorate e aliene come quelle di oggi. Quella Lazio invece potevi toccarla. Era un gruppo di calciatori che cinematograficamente ricordano la scalcagnata ma formidabile squadra di Fuga per la Vittoria, ma senza il nobile intento di liberarsi dalla prigionia nazista. La sensazione che trasmettevano e ancora trasmettono è quella dei galeotti, dei ribelli uniti da un solo obiettivo. Amavano le armi, sparavano, facevano a botte. E riconoscevano un’unica autorità: Tommaso Maestrelli, l’uomo in grado di farli obbedire. Tutti. Come per incanto.

Ha fatto bene Sky – nella serie in tre puntate dedicata a quella squadra, intitolata Grande e Maledetta – a inserire tra i commentatori di quelle gesta lo scrittore e poeta Aurelio Picca, che offre praterie immaginifiche, fotografa il significato che quegli uomini ebbero soprattutto per la tifoseria che da sempre soffriva (e ancora soffre) il complesso d’inferiorità nei confronti dei gradassi romanisti, spavaldi, padroni della città. Chinaglia – e dietro di lui la Lazio – pose per la prima volta il popolo laziale non solo in condizione di parità, ma mise sotto quelli che da sempre erano considerati gli unici romani legittimi. Tra gli intervistati c’è Guido De Angelis, figura mitica della radiofonia laziale.

La Lazio, quella Lazio, è epica. Si potrebbe scrivere un’enciclopedia sulla fotografia emblema della lazialità, scattata da Marcello Geppetti. Chinaglia che dopo il gol nel derby va verso la Curva Sud e in posa da guerriero addita il feudo giallorosso. Un segnale di sfida che mai nessuno prima di lui aveva osato muovere. Chinaglia si batté per la parità ma la sua non fu una battaglia diplomatica. Se la prese, la parità, la strappò, la conquistò. Non fu una lotta politica. Fu una lotta e basta. È uno dei tratti dell’immortalità di quegli uomini.

Giorgio Chinaglia ha giocato nella Lazio dal 1969 al 1976; il suo score con la maglia biancoceleste è di 122 gol in 246 partite di competizioni ufficiali (Marcello Geppetti/Marcello Geppetti Media Company Srl/Wikipedia Commons)

Questa era la Lazio. Una squadra che in due anni passò dalla Serie B allo scudetto. E che poi si sfarinò. Per mille motivi, ma soprattutto perché aveva esaurito la propria missione. I cicli sportivi sono materia da Nord, da chi è proprietario della Fiat e quindi del Paese. La Lazio, così come il Cagliari di Riva, praticavano un altro sport. Conquistare una meta (in questo caso lo scudetto) valeva una vita intera. Dopo, quasi non c’era tempo per vincerne un altro: avrebbe sottratto risorse ed energie al racconto dell’impresa. Una narrazione tramandata di generazione in generazione e che ancora resiste oggi, dopo cinquant’anni, nonostante la Lazio abbia poi vinto ancora ma in una forma completamente diversa.

Quella Lazio vinse lo scudetto ma non giocò la Coppa dei Campioni. Perché l’anno prima finì in rissa – in campo, sugli spalti e fuori dallo stadio – la sfida con gli inglesi dell’Ipswich Town e con un arbitro che oggi i protagonisti ricordano alticcio. La Lazio menava con naturalezza, in campo e fuori. Figurarsi quando l’arbitro negava loro rigori solari (che persino il Var di oggi in Serie A avrebbe assegnato) per la parata di un difensore sulla linea di porta. Quella Lazio, con un arbitro diverso, avrebbe potuto vincere la Coppa Uefa e dire la sua in Coppa dei Campioni. Ma in fondo era solo il destino che si stava compiendo. Una ribellione non può mai diventare una storia di governo.

E Lalaziodel74 non la si comprende appieno se non ci si sofferma sulla sorte che ha atteso tanti dei suoi protagonisti. Non a caso il titolo scelto da Sky è stato Grande e Maledetta. Se ne andò per primo Tommaso Maestrelli, che si ammalò e lasciò tutti orfani. Poi Luciano Re Cecconi, vittima di un episodio che oggi sembra irreale e che resta tuttora avvolto da un alone di mistero: una rapina per scherzo ma col gioielliere che spara veramente e lo uccide. In un’Italia in cui le rapine erano all’ordine del giorno, in cui il dibattito sulla legittima difesa imperava al pari di quello sul terrorismo. Anni dopo, in un incidente stradale, morì Frustalupi, il regista di quella squadra. Si fa prima a ricordare chi è sopravvissuto. Che sono quelli intervistati da Sky – Martini, Oddi, Nanni, Petrelli – più Garlaschelli, che però non c’è nella serie. Degli altri non è rimasto più nessuno. Wilson e Chinaglia riposano nella cappella di famiglia dei Maestrelli accanto al signor Tommaso, il loro secondo padre. Basterebbe questo per farne un film.

In realtà Chinaglia se n’era andato prima, prima pure di Maestrelli. Se ne andò in America, a giocare nei Cosmos di Pelè, dove segnò vagonate di gol e dove prendeva di petto anche il brasiliano. Devi passarmi la palla. Chinaglia era così. Era il ragazzo emigrato da bambino, che si emozionava e dava il massimo quando giocava all’estero con la maglia della Nazionale. Sapeva quanto quelle partite valessero per gli emigranti. Fu lui a innescare il gol di Capello a Wembley. Dopo la sfida alla Curva Sud, la sua vita a Roma divenne impossibile. I dollari erano a portata di mano, tanti, benedetti e subito. E se ne andò. Lalaziodel74 è morta tante volte. La prima, la più importante, quando se ne andò lui. Che chiuse con Roma e con l’Italia. E con la Nazionale quando ai Mondiali del 74 mandò a quel paese Valcareggi con un gesto che oggi sarebbe considerato acqua fresca ma che allora fu uno scandalo. Era lui il leader della Lazio, indiscusso, oggi glielo riconosce anche il suo avversario interno, Martini. “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”era la parola d’ordine scandita dalla tifoseria.

Un estratto del documentario: quello sulla partita contro l’Ipswich Town

Se qualcuno raccontasse Lalaziodel74 a Martin Scorsese, ne verrebbe fuori un film memorabile. Sky ci ha provato a confrontarsi con un fenomeno che è stato politico, sociale e umano ancor prima che calcistico. E le tre puntate sono godibili, pur senza il respiro ampio che la vicenda avrebbe meritato. Include persino qualche aneddoto non diciamo inedito, ma rimasto nelle retrovie, nelle cianfrusaglie. In quel baule c’è materiale per un kolossal. Con gli occhi di oggi sembra una squadra improbabile. Ma era mezzo secolo fa. Il Novecento. Era tutto diverso, anche il calcio. Basti pensare al Leeds United (non ancora maledetto) di Don Revie: squadra di picchiatori che vinse il campionato inglese lo stesso anno della Lazio di Chinaglia e Maestrelli. Pure la Lazio menava. E menavano persino il figlio del presidente della Repubblica Giovanni Leone, se era il caso. E il caso si presentò, perché proprio Leone chiese a Maestrelli la cortesia di far partecipare il suo figliolo Giancarlo (poi a lungo dirigente Rai) a qualche allenamento. Giocava punta e ai quei difensori lì non gliene fregava niente chi fosse suo padre. Menavano lui e menavano anche Nicola Pietrangeli, che qualche volta si aggregava per le famigerate partitelle infrasettimanali. Partitelle diventate leggenda del calcio italiano. Con le due squadre a fronteggiarsi. Sempre le stesse. Si sfidavano i due gruppi che quasi non si rivolgevano la parola. Si spogliavano in stanzoni diversi. Da un lato il gruppo di Chinaglia e Wilson, dall’altro quello di Martini e Re Cecconi. Martini che nel 1996 sarebbe diventato deputato di Alleanza Nazionale, e lo sarebbe rimasto fino al 2006.

Si potrebbe continuare all’infinito. Un personaggio particolarmente azzeccato della serie è il figlio di Maestrelli (Massimo): da bambini i due gemelli – lui e il fratello – erano le mascotte della squadra, aver vissuto l’infanzia in quel covo di matti deve essere stata un’esperienza indimenticabile e formativa. Massimo racconta di quando andò in macchina con Petrelli e vennero fermati a un posto di blocco. Petrelli aprì il cruscotto per prendere i documenti e c’era una bomba a mano. Lo raccontò a casa ma i genitori non gli credettero. Sempre lui, Maestrelli junior, sintetizza perfettamente il senso di quella vicenda: «Non siamo nati laziali, lo siamo diventati».