Non sapevo cosa fosse la sconfitta: intervista a Júlio César

Il portiere del triplete interista torna indietro con la memoria: l'arrivo in Italia, Mancini e Mourinho, quella notte di Barcellona.

Batumi, Georgia. I giocatori dell’Inter scendono dal pullman che dall’aeroporto li ha condotti in hotel e a turno sfilano sotto gli occhi incuriositi e ammirati degli appassionati locali: Sneijder, Milito, Zanetti, Júlio César, Lucio, Materazzi, Maicon, Pandev, Cambiasso. Solo che non è il 2010, e non si tratta di una trasferta di Champions: è il 2024 e tutti questi nomi – accomunati dall’aver condiviso lo spogliatoio interista in una stagione unica, quella del triplete – si sono nuovamente ritrovati per una partita tra leggende, quelle dell’Inter appunto e una rappresentativa di vecchie glorie del calcio georgiano. Non ci sono solo i nomi interisti del triplete, del gruppo fanno parte anche giocatori che hanno vestito il nerazzurro prima – come Figo, Galante e Colonnese – o dopo, come Borja Valero e Palacio. Un’occasione per scendere di nuovo in campo, con la formazione dell’Inter che finirà per vincere 2-0, ma anche per ritrovare vecchi compagni di squadra – nonché amici. Per i tifosi locali una festa straordinaria: qui il grande calcio non è esattamente di casa (se togliamo che fino a qualche mese fa a Batumi giocava un certo Kvaratskhelia) e vedere in campo tutti insieme giocatori che hanno fatto la storia di certo li ha lasciati stupefatti e ammaliati.

In porta, non può che esserci Júlio César. Non solo perché il portiere brasiliano è stato uno dei volti del triplete, ma anche perché ha legato indissolubilmente il suo nome all’Inter: dal 2005 al 2012 Júlio César ha difeso la porta nerazzurra con una continuità di rendimento che ne ha fatto per molti anni della sua carriera uno dei migliori – se non il migliore in assoluto – portieri al mondo. Oggi il brasiliano riavvolge il nastro di un’esperienza all’Inter indimenticabile, costellata di successi, trofei e nottate indimenticabili.

Che cos’è per te l’Inter?

È la squadra che ha fatto conoscere Júlio César a livello internazionale. Mi ricordo che prima di arrivare all’Inter, nel 2005, sulla prima pagina della Gazzetta c’era scritto: “Júlio César, lo sconosciuto portiere brasiliano”. Ho chiesto al mio agente cosa significava, visto che non conoscevo la lingua. Dopo è stato tutto diverso: in sette anni, l’Inter mi ha dato visibilità nel mondo del calcio, ovviamente insieme alla Nazionale brasiliana.  Un portiere brasiliano che va in Italia e riesce a imporsi rappresenta bene il suo Paese. Poi ovviamente c’è l’amore per il Flamengo, la mia prima squadra. Ma l’Inter mi ha dato quella spinta in più.

Qui in Georgia ritrovi tanti di quei volti con cui hai condiviso successi con l’Inter.

È bello ritrovare i vecchi compagni: avere questa opportunità di rivivere tanti bei momenti, calcisticamente e non solo, è un modo per ricordare. Penso che giocare questo tipo di partite è bello anche perché abbiamo la possibilità di rifare quello che facevamo molto bene. Ci divertiamo, sai? Nel frattempo è cambiato tutto, la nostra vita è cambiata, ce lo raccontiamo a pranzo e a cena quando stiamo tutti insieme. Spero di giocare queste partite più spesso, è un evento divertente anche per i tifosi: chi ama il calcio vuole rivedere i giocatori che hanno scritto la storia. Il calcio è una cosa bella perché ne siamo appassionati fin da bambini, poi è diventato il nostro lavoro e ci ha lasciato delle amicizie. Quando ritrovi i vecchi compagni, è come se tu avessi continuato a parlare tutti i giorni con i tuoi vecchi compagni. È come se il tempo non fosse passato.

Partiamo dall’inizio della tua avventura in nerazzurro.

Non è stato facile trasferirsi in Europa. La famiglia lontano, un nuovo Paese… Non vedevo mai mio padre, mia madre, i miei fratelli. Ma quando ho avuto questa opportunità, quella di venire in Italia e in Europa, non ci ho pensato due volte. L’Inter mi ha dato anche la possibilità di imparare e scoprire un’altra lingua. Nello stesso periodo c’era una trattativa col Porto, mi sarei trasferito in un altro Paese in cui si parla il portoghese, come il Brasile. Ma trasferirsi all’Inter voleva dire trasferirsi nel calcio italiano: a quei tempi tutti volevano venire in Serie A. Mi chiamò Adriano, fu il primo a dirmi che l’Inter mi voleva. Con lui ho giocato la Coppa America 2004, l’abbiamo vinta da protagonisti, e dopo Mancini ha manifestato l’interesse da parte dell’Inter. A quel punto ho fermato tutto col Porto e ho accettato l’offerta dei nerazzurri.

Cosa ti ricordi dei primi tempi in Italia?

Quando sono arrivato, sono rimasto un po’ sorpreso. Arrivai a gennaio, l’Inter mi diede la possibilità di restare subito in Italia, andando in una squadra più piccola, o di rimanere al Flamengo per altri sei mesi. Non ci ho pensato su, ho voluto restare in Italia, iniziare a parlare la vostra lingua, volevo prepararmi per poter andare all’Inter e confrontarmi con tutti i campioni che c’erano in squadra. Quando sono arrivato a Verona, per giocare con il Chievo, non ho capito subito che il Chievo stava facendo un favore all’Inter (perché i nerazzurri non avevano possibilità di tesserare un altro giocatore extracomunitario, nda). Io pensavo di andare lì e di giocarmi il posto da titolare, c’erano Luca Marchegiani e Sergio Marcon, invece ho iniziato a giocare con la Primavera. È stato strano: arrivavo dal Brasile, 300 partite in Serie A brasiliana, la vittoria in Coppa America e poi mi ritrovavo a giocare con la Primavera del Chievo. Avevo un po’ di rabbia, però mi allenavo di più: volevo arrivare all’Inter, volevo che l’Inter diventasse la squadra in cui avrei vinto trofei. Un’altra difficoltà di ambientamento l’ho trovata nel freddo, nella neve, non ero abituato. Ma poi con il tempo mi sono abituato, anche grazie a delle persone che mi hanno aiutato molto, quando sono stato a Verona: Luciano, Amauri. 

E finalmente, nell’estate 2005, arrivi in nerazzurro.

Quando arrivo all’Inter c’è Toldo, che era uno dei portieri più forti al mondo. Già dal ritiro, ho avuto subito la possibilità di dimostrare il mio valore. Siamo andati a fare delle amichevoli in Inghilterra, c’erano metà giocatori della prima squadra e metà della Primavera. Alcuni calciatori decisero di non partecipare, tra cui Toldo e Carini. In quelle partite ho avuto la possibilità di dimostrare il mio valore. Ho giocato tre o quattro volte in dieci giorni e ho fatto molto bene. A quel punto l’Inter ha capito che io potevo giocarmi il posto con Toldo e Carini, con il portiere della Nazionale italiana e con il portiere della Nazionale uruguaiana. Diciamo che l’Inter era abbastanza coperta, in quel ruolo.

E Mancini sceglie te. Cosa ha portato Mancini in quell’Inter?

Penso che Mancini sia riuscito a portare una mentalità che mancava, sia alla società che alla squadra. Quando sono arrivato l’Inter non vinceva lo scudetto da molti anni, e nel club non si sentivano all’altezza di Milan e Juve. In fondo parliamo di una società che faceva tanti investimenti su tanti campioni. Sappiamo che c’erano anche altri problemi, per esempio Calciopoli, ma Mancini è stato decisivo perché ha portato un pensiero da campione. Lui è stato un campione, e da lui in poi l’Inter è diventata una squadra vincente: sono arrivato nel 2005, sono andato via nel 2012 e non sapevo cosa significava perdere. Sapevamo solo vincere. Abbiamo vinto 14 titoli. Mancini mi ha fatto anche capire che potevo fare bene in Italia. Lui credeva molto in me, nelle mie qualità. 

E poi c’è Mourinho.

Mourinho arriva e porta una mentalità europea. Il suo soprannome, Special One, in quel momento aveva un significato molto forte. Quando Moratti ha scelto Mourinho, l’ha fatto per vincere la Champions. Lo sapevamo tutti. E il secondo anno ci siamo riusciti, è stata una cosa incredibile. Mourinho era un allenatore molto esigente, molto molto esigente. E poi ti parla in faccia, davanti a tutti. Penso che quella sia stata la sua forza. Al di là del fatto che capisce di tattica, di calcio, che sa gestire i campioni, l’onestà che porta nello spogliatoio spinge ogni giocatore a riflettere tanto. Quando un allenatore parla in un certo modo, si fa rispettare. Sappiamo che ci sono delle squadre e dei gruppi in cui c’è un modo di parlare diverso per ogni giocatore. Con Mourinho no, per lui sono tutti uguali. 

La parata di Messi a Barcellona è la parata della vita?

Quella parata è il mio gol. È come se fossi stato un attaccante e segnare un gol. Ancora oggi, quando torno a Milano, mi fermano per strada per parlare di quella parata, proprio come se fosse un gol segnato. È rimasta nella memoria dei tifosi interisti, ma anche di milanisti, juventini, napoletani. Quando incontro qualche appassionato italiano, parla sempre di quella parata. Io vivo a Lisbona, e Mourinho poco tempo fa ha fatto un’intervista con un importante canale televisivo portoghese: ha detto che il portiere più forte che ha mai allenato è Vitor Baia. Ma la parata più bella è quella di Júlio su Messi. Per me si è trattato di un momento bellissimo: c’era tutto il contesto della partita, la semifinale, il Camp Nou, il Barcellona; giocavamo contro la squadra più forte in quel momento, il giocatore che ha tirato era il più forte al mondo in assoluto. Se avessero segnato, le cose per noi sarebbero state più difficili. Loro erano carichi per fare la remuntada, però io ho segnato il mio gol. 

Tutti ricordano quella semifinale: è entrata nella storia, forse più della finale stessa. Cosa ti passava per la testa durante la partita?

Facevo in modo di non pensare a nulla, ero troppo concentrato. Sapevamo che sarebbe stata dura, dopo l’espulsione di Thiago Motta è diventata ancora più difficile. Però alla fine penso che in quel Barcellona-Inter non ho dovuto fare molti interventi. Ho fatto una parata bellissima, ma poi i miei compagni hanno fatto un lavoro strepitoso. Ricordo Eto’o che faceva il terzino: il Barcellona era riuscito a mettere una palla tra me e il difensore, uno di quei classici passaggi che poi arriva l’attaccante e mette la palla in porta col piattone, facile facile. E invece c’era Eto’o che l’ha messa in angolo. Ho fatto solo un’altra parata su Xavi, tranquilla, il tiro era a effetto ma sono riuscito a bloccarla. Quella partita ci ha dato ancora più fiducia, in vista della finale. 

Il 2010 è stato anche l’anno in cui eri il numero uno tra i numeri uno, possiamo dire.

Quell’anno mi sentivo il miglior portiere al mondo. O meglio: non dico il migliore al mondo, che per me è una cosa che non ha molto senso, ma di certo mi sentivo molto forte, molto forte. Non mi sentivo dietro a nessuno, ero in una situazione davvero eccezionale. C’erano delle volte che andavo in campo ed ero sicuro di non prendere gol. Quando hai questa fiducia, è davvero una bella sensazione.

Oggi chi sono i portieri che apprezzi di più?

Io ero un portiere molto agile. Piccolo e agile. La mia altezza, nel calcio di oggi, non mi darebbe molte opportunità di giocare. E infatti non vedo molti portieri con le mie caratteristiche. Alisson è un portiere che mi piace; anche Ederson, che però non ha le mie stesse caratteristiche; Neuer, che usa la tecnica tedesca e ora è tornato bene, è un portiere che ti dà tanta fiducia in più. Uno che mi ha sorpreso tanto è Sommer: non si parlava tanto di lui, ma sta facendo davvero molto molto bene.

A proposito di Sommer e compagni: dove può arrivare l’Inter di Inzaghi?

L’Inter oggi ha quella fiducia che avevamo anche noi ai nostri tempi. Se consideriamo la finale contro il City, una finale a cui l’Inter si è presentata da sfavorita, è lì che è cresciuta la fiducia di questa squadra: abbiamo visto un’Inter coraggiosa, che ha costruito diverse occasioni. La società e i giocatori che sono rimasti hanno capito che c’è bisogno di amicizia all’interno dello spogliatoio, di tanto lavoro, ma anche che l’Inter è una squadra che può vincere. Anche in Europa. Adesso l’Inter sa controllare le partite e può vincerle in qualsiasi momento. Quando va in questo modo è bello: si vede che il gruppo c’è, e questa è la cosa più importante. Ci sono dei giocatori che sono andati via, ma quelli nuovi che sono arrivati hanno capito subito di essere entrati in una famiglia. Quando scendi in campo con la certezza di essere forti, di essere fortissimi, nessuno ti può fermare. Poi ogni partita è diversa, puoi anche perdere. Ma la fiducia resta, la testa è a posto, bisogna solo continuare in questo modo. In questo momento, l’Inter in Europa non è inferiore a nessuno.