Un episodio di razzismo nella giornata di campionato dedicata alla lotta contro il razzismo. È un’immagine sincera, una raffigurazione fedele di cos’è la Serie A al di là del campo, del gioco e dei risultati. È successo nella stessa settimana in cui una dipendente di un club è stata licenziata dopo aver subito revenge porn. Nella stessa settimana in cui un altro club è finito sotto indagine – seppur con metodi rivedibili da parte della procura – perché potrebbe aver ostacolato l’attività di vigilanza della Figc. Nella stessa settimana in cui il presidente di un altro club ancora ha aggredito un cameraman perché ritiene di non dover far parlare i suoi giocatori con le tv. Sono tutti piccoli dettagli dello stesso quadro. Non resta che aspettare il 25 novembre per vedere se arbitre e guardalinee donne subiranno aggressioni nel turno di campionato in cui i giocatori scendono in campo con un segno rosso sul viso per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.
Sappiamo cosa è successo in Inter-Napoli, ci sono diversi articoli che ricostruiscono quei minuti e il post-partita. Ieri sera Juan Jesus ha fornito ancora la sua versione in un post su Instagram: «Acerbi mi ha detto “vai via nero, sei solo un ne*ro”. In seguito alla mia protesta con l’arbitro ha ammesso di aver sbagliato e mi ha chiesto scusa aggiungendo poi anche: “per me ne*ro è un insulto come un altro”».
Il giorno dopo abbiamo saputo che Acerbi non sarebbe andato in ritiro con la Nazionale, in modo da garantire «la necessaria serenità della squadra e dello stesso giocatore», almeno così ha detto la Federazione. La stessa Federazione che, però, è stata anche ambigua nel non attribuire colpe specifiche al difensore dell’Inter: dalle parole di Acerbi sarebbe «emerso che non vi è stato da parte sua alcun intento diffamatorio, denigratorio o razzista». Così viene fuori che un calciatore è escluso dalla Nazionale per un fatto che ufficialmente, secondo la stessa Federazione che lo ha escluso, non è considerato un problema. E non è uno scherzo.
L’episodio è avvenuto domenica e oggi, martedì, sappiamo di essere ancora nel pieno della polemica. Ma possiamo già immaginare come finirà questa storia, cosa ci sarà dopo, quando tutto si calmerà: niente. Perché non succede mai niente. Adesso toccherebbe a tutte le istituzioni prendere gli eventuali provvedimenti necessari, dal Giudice Sportivo alla Federazione, passando per la Lega e l’Inter. La giustizia sportiva prevede almeno 10 giornate di squalifica in casi di insulti razzisti. Inoltre, Acerbi rischia l’esclusione dalla Nazionale, secondo il codice di condotta della Figc. Sarebbe un primo risultato, che ha anche un precedente: nel 2021 l’attaccante Michele Marconi è stato squalificato per 10 giornate dopo che aveva insultato Joel Obi durante un Pisa-Chievo. Ma anche adesso che la Figc ha annunciato un’inchiesta sul caso, sembra di aspettare che la montagna partorisca il topolino. Perché per anni la Federazione, la Lega, i club e i giudici sportivi hanno avuto un approccio fin troppo tenero, provando a minimizzare o a ignorare certi eventi. E la situazione non è mai migliorata, come prevedibile.
A settembre 2021, Bakayoko, Kessié e Maignan sono stati vittime di insulti discriminatori e il portiere del Milan si era chiesto se si facesse abbastanza contro il razzismo nel calcio italiano. Di nuovo lo scorso 20 gennaio, a Udine, ci sono state altre offese nei confronti di Maignan, e se unire i puntini è facile come sembra allora questa è la dimostrazione che forse non stiamo facendo granché contro il razzismo- Questa è la normalità del calcio in Italia – e purtroppo anche negli stadi di altri grandi campionati – e da troppi anni facciamo finta che le parti negative siano tutte eccezioni. Ma appunto, è un fare finta. Secondo l’Osservatorio Sicurezza Controllo Atti Discriminatori (Oscad) le segnalazioni di razzismo nel calcio italiano sono in un trend crescente: siamo passati da 77 del 2022 ai 96 del 2023 con otto segnalazioni nei primi 40 giorni del 2024. Eppure, quando se ne parla a livello istituzionale, sembra che tutte queste prove scompaiano, che se le porti via il vento. «Speaking truth to power makes no sense», diceva Noam Chomsky, perché quelle istituzioni – the power – sanno già dov’è e qual è la verità, solo che hanno buon gioco a fregarsene.
L’Inter si è presa quasi 24 ore per pubblicare un comunicato in cui non c’è mezza frase di scuse verso il difensore del Napoli. Ieri il procuratore di Acerbi, Federico Pastorello, ha detto che «Acerbi non ha mai rivolto un’offesa razzista a Juan Jesus. Non gli ha mai detto ne*ro». È un istinto di protezione che può avere un senso per difendere qualcuno da un giustizialismo manettaro e illiberale del tipo “chiudere in galera, gettare la chiave” prima ancora di aver fatto le indagini. Ma il contesto in cui si inseriscono queste dichiarazioni è tutt’altro che severo. Il conteso è quello che si legge nelle parole di Federico Dimarco, pronto a scagionare il compagno di squadra pur ammettendo di non sapere esattamente cosa sia successo in campo («Non ho visto niente»). E c’entra poco con multe e squalifiche.
La sensazione è che in Italia ci sia un timore più o meno inconscio nel prendere posizione su certi argomenti – o forse, al contrario, si può star certi che a prendere la posizione di chi offende si può godere di uno scudo, di una copertura che non permette di subire alcun danno. Lo aveva già dimostrato Leonardo Bonucci qualche anno fa, chiedendo a Moise Kean di dividere le colpe con i tifosi del Cagliari: loro, colpevoli di aver dimostrato i lati peggiori del razzismo; lui, non si sa, forse di essere stato così sfacciato da esultare dopo un gol nonostante sia afrodiscendente (how dare you), o di non accettare le onomatopee che gli arrivavano dalle tribune (how dare you, bis).
Lo stesso Acerbi, al rientro dal ritiro con la Nazionale, avrebbe cambiato la versione del campo, quella che avrebbe giustificato le sue stesse scuse a Juan Jesus: «Secondo me ha capito anche male, in campo succedono tante cose, è normale. Si gioca a calcio, si dicono certe cose, ma a fine partita ci si dà la mano e torna tutto come prima». Le sue parole sono esattamente il centro del discorso. Perché il problema non è dotarsi di uno schema di sanzioni, il problema è che quella parola, Acerbi, se l’ha detta, l’ha detta perché è nel suo vocabolario. E se quella parola è presente nel suo vocabolario, lo è con un unico intento possibile.
La multa e la squalifica sono una cura per il sintomo, non la malattia. Se non si cancella l’idea che in campo vale tutto, che è normale anche l’insulto, la discriminazione, il razzismo, allora il sintomo ritornerà sempre. E quindi, a meno di 48 ore dall’episodio di Inter-Napoli, il calcio italiano – ma si può estendere a tutta l’Italia come Paese – emerge come un universo non attrezzato per affrontare un caso del genere. Oltre all’impreparazione delle istituzioni, c’è la sensazione ancora peggiore che certi meccanismi sociali e umani siano atrofizzati. Non a livello legislativo: a livello culturale. Siamo riusciti a fare diventare meme l’immagine di Acerbi che cinge Juan Jesus con un braccio sotto e si giustifica indicando da qualche parte in direzione di Thuram – perché sembra divertente che anche lui abbia tanti compagni di squadra neri, o qualcosa del genere. Siamo così poco attrezzati che qualcuno ha perfino suggerito ad Acerbi di combattere il razzismo con la blackface. E anche qui non c’è da ridere, perché non è uno scherzo.
La parte più straniante, alienante, è che ormai siamo assuefatti a tutto questo, a questa forma di complicità sottile con il razzismo, un abbandono lento allo status quo. Lo dimostra anche la seconda dichiarazione di Juan Jesus, che ha in qualche modo minimizzato dopo la partita dicendo «quello che succede in campo rimane in campo». A fine giornata, lunedì il difensore del Napoli è tornato sulla questione per rispondere alle ultime parole di Acerbi con il già citato post su Instagram: «Oggi leggo dichiarazioni di Acerbi totalmente contrastanti con la realtà dei fatti, con quanto detto da lui stesso ieri sul terreno di gioco e con l’evidenza mostrata anche da filmati e labiali inequivocabili in cui mi domanda perdono». Chissà come avrebbe reagito, o non reagito, Juan Jesus, se Acerbi non avesse rilasciato quell’intervista ieri, in buona sostanza dandogli del bugiardo, accusandolo di fare la vittima. Il difensore del Napoli sembrava aver essersi messo alle spalle l’episodio, come dice lui stesso all’inizio del messaggio su Instagram. Perché forse inconsciamente sa di non poter vincere questa battaglia. Sa che anche rivendicare certe cose avendo subito quel tipo di torto perde di potere se a ogni protesta seguono contenitori vuoti di contenuto e nessun cambiamento. Sembra di ripetere sempre le stesse cose, episodio dopo episodio.