Fare l’allenatore, in Brasile, è un mestiere assurdo

A causa di un sistema calcistico a dir poco caotico, i tecnici brasiliani cambiano continuamente squadra. E così hanno delle carriere uniche al mondo.

Le due persone che vedete nella foto in apertura sono (da sinistra) Fernando Diniz e Dorival Junior, vale a dire l’ultimo e l’attuale commissario tecnico della Nazionale brasiliana. Dorival Júnior, 61 anni compiuti, sta per iniziare la sua nuova esperienza con la Seleção all’apice di una carriera di 22 stagioni con 26 club diversi; Diniz, che di anni ne ha 49, è ancora il tecnico del Fluminense e prima del Flu ha guidato 17 squadre differenti in 13 stagioni da professionista. Questi numeri sembrano assurdi, sono assurdi. Ma solo se li guardiamo da una prospettiva eurocentrica: in Brasile, infatti, tutti gli allenatori hanno delle carriere di questo tipo, non si legano a nessun club, vengono esonerati e/o si dimettono spesso, molte volte a poco tempo dal loro arrivo, e una manciata settimane dopo hanno già un nuovo incarico. Magari in un club che hanno già allenato, non c’è niente di strano.

Questa situazione così particolare, inevitabilmente, rende più difficile il trasferimento degli allenatori brasiliani fuori dai confini: non a caso, viene da dire, soltanto Luxemburgo (2005) e Scolari (2008/09) sono riusciti a guidare un top club in Europa negli ultimi vent’anni. Ma perché in Brasile si ragiona/lavora in maniera così diversa rispetto all’Europa? I motivi sono molteplici, e ovviamente riguardano le peculiarità – anche se sarebbe meglio dire le unicità – del calendario e del sistema calcistico locale. Ne ha scritto Espn in questo lungo reportage per il quale sono stati intervistati giornalisti, agenti e ovviamente allenatori che hanno a che fare con il Brasile. E che, in qualche modo, hanno trovato delle motivazioni in grado di spiegare questa tendenza.

Il primo aspetto riguarda i contratti degli allenatori e l’approccio delle società a questa figura professionale: i tecnici firmano degli accordi a breve termine, e in ogni caso il loro lavoro è legato ai risultati che vengono ottenuti subito dopo la loro assunzione. Per dirla brutalmente: secondo i dirigenti brasiliani gli allenatori possono – anzi: devono – avere un impatto immediato sui giocatori, non hanno tempo per lavorare a un progetto tattico sofisticato, il loro unico obiettivo è fare punti. Subito. Anche perché il calendario calcistico brasiliano è enorme e confusionario: si articola su tre livelli – statale, nazionale e sub-continentale – e porta le squadre a giocare tantissime partite in poco tempo. Questa ricerca dell’immediatezza è legata anche a un altro tipo di volatilità: quella delle giunte presidenziali, che nella maggior parte dei club sono espressione di un voto popolare, cioè vengono elette dai soci/tifosi chiamati alle urne, e quindi sono perennemente in modalità “campagna elettorale”. In una situazione del genere, l’unico modo per essere confermati come presidenti è vincere le partite. E questa responsabilità, quindi, ricade inevitabilmente sugli allenatori.

Gli stessi club, poi, non hanno dei reali disincentivi a licenziare i loro tecnici: gli esoneri, che in Europa comportano il pagamento di uno stipendio a vuoto, sono talmente frequenti che gli allenatori rimasti senza squadra finiscono per trovare subito un’altra. In questo modo, quindi, le società hanno quasi sempre un solo tecnico sul libro paga. Tecnico che, a sua volta, sa di essere perennemente in bilico, e quindi non ha alcuno stimolo a lavorare con un progetto a lungo termine. In fondo, a pensarci bene, che senso ha impegnarsi per introdurre nuove idee se bastano due o tre sconfitte per far scattare il licenziamento?

Anche il calciomercato, ovviamente, ha un impatto sull’approccio dei club: la continua diaspora di talenti verso l’Europa rende difficile, se non impossibile, lavorare su un sistema di gioco che rimanga stabile nel tempo. In pratica è come se il turnover continuo – e inevitabile – dei giocatori finisse per determinare anche quello degli allenatori. E lo stesso discorso vale anche per lo status dei club: rispetto a tutti i campionati europei, infatti, in Brasile ci sono molte più società legittimate – dalla loro storia, dal loro palmarés, dal loro seguito – a credersi grandi, o comunque delle reali contender per il titolo. C’è grande turnover al vertice, ma il campionato resta uno: così a fine stagione ci sono diversi club che sentono di aver fatto male, di aver conseguito risultati negativi. E qual è l’unico modo per dare subito dei nuovi stimoli alla squadra e all’ambiente? Risposta facilissima: cambiare allenatore.

Una soluzione, guardando la cosa dal puto di vista degli allenatori, potrebbe essere quella di trasferirsi all’estero. Ma anche in questo caso ci sono diversi problemi: i club europei d’élite, come abbiamo visto, faticano molto a rivolgersi al mercato brasiliano; inoltre alcune licenze di coaching non sono riconosciute in altri Paesi, e allora l’accesso ai livelli più alti diventa ancora più complicato. Infine, ma non in ordine di importanza, i tecnici devono fare i conti anche con una barriera linguistica abbastanza difficile da scavalcare: quasi tutti gli allenatori brasiliani, infatti, non conoscono l’inglese e lo spagnolo. Di conseguenza, ambire a un posto in Europa si trasforma in una vera e propria impresa. Tanto vale aspettare una chiamata dal Brasilerão. Una chiamata che, come abbiamo visto, di solito non tarda ad arrivare.