Adesso anche i calciatori iniziano a parlare dei danni subiti a causa dei colpi alla testa

L'intervista all'Équipe di Raphaël Varane è un segnale molto incoraggiante.

Per molti anni, Raphaël Varane è stato uno dei migliori difensori al mondo: non solo perché ha vinto tutto – più volte – con il Real Madrid e la Coppa del Mondo con la Francia, ma anche per il suo rendimento sempre inappuntabile, per la sua qualità da marcatore puro e come primo costruttore di gioco. Da quando nel 2021 si è trasferito al Manchester United, Varane ha decisamente smarrito quello smalto, o comunque non è riuscito a tenere più gli stessi standard: ha giocato soltanto 57 gare da titolare in Premier League, ha avuto dei problemi con Solskjaer e poi con Ten Hag, ha subito diversi infortuni che hanno contribuito a limitarlo. In tutto questo, poi, la profondissima crisi di identità dei Red Devils non l’ha aiutato per niente.

Nell’elenco dei guai fisici accusati da Varane, vanno inseriti anche dei problemi legati ai colpi subiti alla testa. Sia quelli da parte degli avversari che quelli dati alla palla. È stato lo stesso difensore francese, in un’intervista rilasciata a L’Équipe, a raccontare tutte le volte che ha avuto a che fare con un trauma cranico: «Ho accusato diverse commozioni cerebrali nella mia carriera», ha detto, «e se ripenso al passato mi rendo conto di aver giocato due delle partite più brutte della sua carriera pochi giorni dopo aver subito un colpo in testa». Le gare in questione sono il quarto di finale contro la Germania al Mondiale 2014 e l’ottavo di finale della Champions League 2020 contro il Manchester City, partite che in entrambi i casi sono costate l’eliminazione della squadra di Varane. Nel primo caso l’infortunio era arrivato durante l’ottavo di finale contro la Nigeria: «Una partita terminata con il pilota automatico», racconta Varane. «Se qualcuno mi avesse parlato in quel momento, non so nemmeno se avrei potuto rispondere. Non ricordo il resto della partita dopo il colpo alla testa». Nel 2020, il problema era emerso dopo una pallonata ricevuta durante la sfida di campionato contro il Getafe, quando nei giorni pre Champions si era sentito «così stanco da volermi prendere a schiaffi. Durante la partita, ho giocato i primi tre palloni in modo pulito, ma ero troppo lento: non riuscivo a concentrarmi, ero come uno spettatore. La gara è andata male, ho commesso degli errori, e solo dopo mi sono reso conto che erano legati allo shock che avevo subito. Mi sono interrogato molto, e alla fine ho capito che questi errori insoliti non erano caduti dal cielo».

Un aspetto importante della sua intervista riguarda la reazione a certi colpi subiti in partita: «Spesso da calciatori non capiamo il problema, né pensiamo di fare dei test. Siamo abituati al dolore, siamo come dei soldati, ragazzi tosti e abituati allo sforzo fisico. Ma il problema è che certi sintomi sono invisibili». Riguardo il caso dei Mondiali 2014, ricorda: «Oggi mi chiedo: se allora avessi saputo che era stata una commozione cerebrale, l’avrei detto, anche se ciò significava non giocare a questa partita? Non lo so. Come posso misurare in quel momento la mia capacità di giocare contro la Germania ai quarti? Non si può dare la colpa neanche ai medici, è una situazione un po’ complicata».

Oggi il suo atteggiamento è decisamente cambiato: «Non so se vivrò 100 anni, ma so per certo di aver danneggiato il mio corpo. Quando sai che le commozioni cerebrali hanno un effetto potenzialmente fatale su te stesso, ti dici che le cose possono andare molto storte. A quel tempo non ero un padre di famiglia, ma oggi, a 30 anni e con tre figli, la penso diversamente. Al Manchester United ci hanno  consigliato di non fare più di dieci colpi di testa per ogni seduta di allenamento. Mio figlio di sette anni gioca a calcio e io gli consiglio di non colpire il pallone di testa. Tante volte noi giocatori non lo capiamo, non pensiamo nemmeno a fare un test. Riconoscere una commozione cerebrale e curarla, beh, quella è ​​una vera sfida. È un vero problema di salute, può anche essere fatale. Le cose stanno cambiando poco a poco, ma possiamo ancora fare progressi in questo settore». In effetti le discussioni intorno alla concussion – cioè tutti gli studi fatti per stimare l’impatto dei colpi alla testa nella carriera professionistica di un calciatore – sono cresciute molto negli ultimi anni, e ora le confessioni di Varane potrebbero dare una nuova spinta per cambiare davvero le cose. O, magari, per approfondirle.