Assistere ai quarti di finale di Champions è come entrare in una nuova dimensione. È un po’ come quando, nei vecchi giochi d’avventura degli anni Novanta, sconfiggevamo il boss del primo mondo e così conquistavamo l’accesso al quadro successivo: i diamanti (i gol) da accumulare diventano di più, le combo di salti (le giocate) da fare diventano più difficili. In questo senso, la distanza con la fase a gironi e con gli ottavi risulta enorme: le partite, prima scontate per non dire noiose e già segnate, diventano imprevedibili, ricche di colpi di scena; i giocatori più forti cominciano a manifestare il loro vero potenziale, come se fossero finalmente stuzzicati da tutto ciò che gli succede intorno.
Alla fine, quindi, la Champions League è ancora – nonostante le minacce incombenti portate dalla Superlega, del Mondiale per Club, della Saudi Pro League – la miglior competizione possibile, per il calcio di oggi. E le cose, se possibile, stanno addirittura migliorando al confronto col passato: come riporta Giuseppe Pastore in questi due tweet, è la prima volta che tutte le squadre arrivate ai quarti di finale di Champions riescono a segnare nelle partite d’andata; inoltre, per la prima volta è stato pareggiato il record di reti realizzate nelle quattro gare d’andata (18) fatto segnare nella stagione 2010/11, solo che allora il Real Madrid e il Barcellona schiantarono Tottenham (4-0) e Shakhtar (5-1), e moltissimi altri gol arrivarono da una partita assurda come Inter-Schalke 2-5. È chiaro che l’élite del calcio europeo abbia degli equilibri più livellati rispetto a qualche anno fa. E si tratta di un livellamento verso l’alto: Real Madrid e Manchester City sono le migliori squadre della Champions, da anni, eppure non sono così distanti dal Bayern Monaco, dall’Atlético Madrid, anche dall’Inter a pensarci bene. E sono tutte squadre davvero forti. In cambio, ovviamente, l’imprevedibilità di finali come Porto-Monaco (2004) o del Bayer Leverkusen che arriva fino in fondo (2002) non esiste più.
La questione, come succede sempre e in ogni ambito, è essenzialmente economica. Da tempo, ormai, il calcio europeo ha venduto definitivamente la sua anima – un processo iniziato molti anni fa, non certo negli anni Novanta o Duemila – e ora la maggior parte delle competizioni risultano chiuse, cioè alla fine vincono sempre i club più ricchi, quelli imbottiti di campioni. In cambio, però, questo sistema ci ha dato la Champions di oggi: uno spettacolo meraviglioso, almeno dai quarti in poi. Ce ne siamo accorti in questi giorni, arrivati ai match decisivi dell’edizione 23/24: l’overdose di calcio supersonico regalataci (di nuovo) da Real Madrid e Manchester City, la sensazione di meraviglia (solo leggermente inferiore) provata da chi ha seguito Arsenal-Bayern Monaco 2-2, poi PSG-Barcellona 2-3 e persino Atlético-Borussia 2-1. Ecco, sono state tutte partite ricche di gol, di momenti indimenticabili. Anche per i tifosi neutrali.
Molto spesso, quando ci sono partite con tanti gol, si finisce per fare confusione. Si finisce, cioè, per scambiare i meriti con i demeriti, le prodezze con le papere, le grandi giocate con gli svarioni difensivi o di posizionamento. Intendiamoci: a pensarci bene, l’uscita di Donnarumma e i palloni persi dal Borussia Dortmund in costruzione bassa restano degli errori gravi, evidenti. Anche rari, se vogliamo. Il punto, però, è che certe giocate sbagliate nascono, se possiamo dire così, dal contesto: il Barcellona non ha costretto Donnarumma a tentare un intervento così complicato e così fuori tempo, questo no, ma comunque Donnarumma deve pensare e agire in questo modo, deve essere padrone della sua area di rigore, quantomeno deve provarci, se vuole essere il portiere titolare del PSG in una gara come quella contro il Barça; poi sarà il PSG a decidere, nel prossimo mercato, se ha senso puntare ancora su di lui. Allo stesso modo, il BVB ha certamente avviato due o tre o quattro azioni in modo strampalato, con passaggi fuori misura, ma si deve tener conto anche dell’Atlético Madrid, del pressing feroce e precisissimo della squadra di Simeone.
Tutto questo ragionamento combacia perfettamente con le sensazioni che abbiamo vissuto martedì sera, con il ricordo ancora caldo di Real-City e di Arsenal-Bayern. Allora si può dire: i quarti di finale di Champions League finiscono per riscrivere il concetto di spettacolo calcistico. Rispetto al passato, infatti, le migliori squadre del mondo sono più forti rispetto a tutte le altre. E hanno pure una visione meno speculativa, più offensiva, pensano a come far male agli avversari, prima che a bloccarli. Anche perché, e il concetto più importante è proprio questo, parliamo di partite che sono a un livello tale di di difficoltà che in qualche modo riscattano l’immagine della Champions. E della sua stessa formula.
Se le gare fino agli ottavi – anche quelle dei gironi tra le squadre di prima e seconda fascia – hanno un andamento e un esito quasi sempre banale, in primavera le cose cambiano. Ed è qui, in questo momento e in questi giorni, che l’elitismo del torneo diventa una condizione finalmente godibile, per i tifosi e gli appassionati neutrali: la concentrazione di talento in pochi top club è come se detonasse, e il fatto che si tratti di partite dentro-fuori – non andrebbe così in un’eventuale Superlega, almeno prima dei playoff finali: cosa ci sarebbe di diverso rispetto a oggi? – determina una tensione competitiva irraggiungibile, per il mondo del calcio. Spesso neanche le gare decisive dei Mondiali riescono a sfiorare certe quote di bellezza, di spettacolarità pura. Insomma, oggi il calcio ai massimi livelli è un circolo ristrettissimo, a cui è difficile accedere, ma che alla fine offre il meglio del meglio per chi ama il gioco. Ma solo in Champions e da aprile in poi. La vera domanda è: due mesi di Champions League meravigliosa, davvero meravigliosa, valgono tutta la noia precedente? È da qui che partirà la sfida dell’UEFA, per cercare di conservare lo status quo. O per cercare di migliorare ancora la Champions.