Con il successo al Masters 1000 di Miami, Jannik Sinner ha confermato il primo posto in una speciale classifica: quella delle entrate economiche dell’anno 2024, ovviamente relative al tennis. Come scrive la Gazzetta dello Sport, Sinner a 22 anni si è messo in tasca quanto il ceco Ivan Lendl guadagnò in una carriera intera. Con i 21 milioni e 200 mila dollari raccolti finora, Sinner è il 26esimo tennista più ricco della storia, ovviamente guardando solo ai ricavi derivanti dai tornei, e dietro di lui ci sono Hewitt, Roddick, Ivanisevic ed Edberg. Ma il tennis non è solo Sinner o Alcaraz: è uno sport che cresce di anno in anno, se guardiamo al numero di appassionati, agli investimenti, ai biglietti venduti. ma è anche un insieme di giocatori che faticano ad arricchirsi, che devono fare i conti con costi piuttosto elevati per continuare a fare carriera.
È il problema storico e poco noto di una disciplina elitaria. Già nel 2013 il tennista argentino Thomas Bucchas (da 1.355esimo al mondo) aveva scritto alla Federazione Internazionale dicendo che «giusto un centinaio di persone potessero vivere di tennis, perché al resto dei giocatori non ci guadagnava nulla». Di per sé, a pensarci bene, non c’è nulla di sbagliato in un criterio meritocratico che lega i guadagni alle vittorie, ai successi ottenuti in campo. A confronto dei protagonisti di altri sport, per esempio calcio e basket, i tennisti fanno una vita diversa: non godono di uno stipendio annuale, previsto dal contratto con una squadra, ma sono liberi professionisti. E allora pagano le trasferte, gli allenatori e lo staff indipendentemente dalle partite che vincono. A certi livelli è impossibile dedicarsi a un secondo lavoro, ma è fondamentale la ricerca continua di uno sponsor. Nel 2020 fu SuperTennis a presentare un confronto economico: Medel al Bologna guadagnava 1,5 milioni di euro, Destro al Genoa 1,2 milioni, Pazzini al Verona 1,3, Petagna alla Spal 1,2. Erano tutti buoni calciatori che non sarebbero mai rientrati nella top 100 del loro sport, eppure avevano stipendi importanti. Ecco l’enorme differenza: i tennisti di quel livello rischiano spesso di non arrivare a fine mese.
A Djokovic, che naturalmente non è toccato da questi problemi, e a Patrick Mouratoglou – famoso per essere il coach di Serena Williams e il fondatore di una delle Accademie di tennis più importanti al mondo – va dato il merito di aver più volte menzionato il problema. «Ho provato a mettermi nei panni di tutti quei tennisti che non sono nelle top 100, e vale per uomini, donne e doppisti: se non vinci almeno un torneo al mese la vita è dura», ha dichiarato il campione serbo lo scorso novembre. «Quando ho iniziato anche io non godevo di un grande sostegno da parte della federazione serba. Oggi ho una certa influenza e voglio fare qualcosa. La situazione attuale è un fallimento del nostro sport». Mouratoglou, da parte sua, aveva perfino inviato una lettera alla Federazione internazionale: «Il nostro sport è bellissimo ma il periodo della pandemia non ha fatto altro che enfatizzarne quello che non funziona del sistema. Chi è fuori dalla top 100 fa fatica a chiudere l’anno in pareggio e la sostenibilità economica è la sua prima sfida professionale. Si tratta di una preoccupazione che non dovrebbe riguardare uno sport seguito da almeno un miliardo di fan in tutto il mondo. Il tennis non può vivere solo di élite, lasciando indietro tutti gli altri. Il tour si atrofizzerebbe».
Non mancano esempi che provano le loro parole. Si è molto parlato di Jason Kubler, tennista australiano che ai tempi delle giovanili era stato paragonato a Rafa Nadal, e che ha affrontato proprio il maiorchino a Brisbane. Si era ritirato nel 2016 a causa di un problema congenito alle ginocchia, ma è rientrato perché gli erano rimasti solo 14 centesimi sul conto corrente, nella speranza di recuperare qualcosa. Tim Mayotte, statunitense ex top 10, aveva detto che, per raggiungere uno stipendio decente, servivano «200 mila dollari all’anno di premi». Il suo connazionale Noah Rubin, che per miglior ranking ha il 125esimo posto del 2018, ha confermato che non si può vivere senza sponsor: «Se sei fuori dalla top 100 fai fatica a trovarli. Non basta giocare, occorre vincere. Ma non puoi sempre riuscirci a questi livelli».
Il discorso vale anche per l’Italia, dove i guadagni di Sinner sono più eccezione che esempio di un movimento in crescita. Salvatore Caruso, ex numero 76 al mondo e oggi al 346esimo posto del ranking Atp, ha incassato 877.118 dollari lordi in 10 anni di carriera (fino al 2020), meno della metà di quanto ha stimato Mayotte per mantenersi facendo il tennista. Altri esempi li ha riportati Il Fatto Quotidiano lo scorso ottobre: Simone Roncalli viaggiava intorno alla 700esima posizione, quando ha deciso di abbandonare il tennis giocato a 27 anni. «Due anni fa», ha raccontato, «mentre ero al Cairo a giocare un torneo ITF, ho comprato il biglietto aereo per il Portogallo senza avere la certezza di rientrare nel tabellone del Maia Open, un Challenger. Sconfitto in Egitto, sono partito immediatamente e ho giocato il torneo successivo senza poter dormire neanche un’ora. Viaggiavo da solo per risparmiare, senza il mio staff. È in pari con le spese solo chi è almeno tra i primi 200, per questo ora ho deciso che farò l’allenatore». Anche Roberto Marcora, nel 2020, ha deciso di ritirarsi dopo essere stato 150esimo al mondo. «Se non fosse stato per il supporto economico di mio padre, non sarei nemmeno diventato professionista. Puoi mantenerti solo se entri nel giro degli Slam, tra montepremi e campionati a squadre, ma i soldi veri li vedono solo i primi 100». Adesso Marcora fa tutt’altro: «Lavoro nell’azienda di famiglia, nel settore dell’acciaio laminato a caldo». Anche Luca Potenza, 23enne che lo scorso anno ha raggiunto la posizione 456, è condizionato dalle incertezze economiche. «Faccio fatica. Di base devi essere di famiglia benestante, altrimenti non puoi permetterti di giocare in tutti i tornei e ambire al salto di qualità».
Se tutto questo discorso vale per Paesi dove il tennis fa parte della tradizione sportiva, cosa accade negli altri? Recentemente, il Guardian ha dato un’idea di quello che succede nel contesto africano. La 20enne kenyota Angella Okutoyi è entrata in un terreno inesplorato quando ha vinto un match nel torneo juniores agli ultimi Australian Open (dopo il successo nel doppio femminile a Wimbledon nel 2022 con l’olandese Rose Marie Nijkamp). Avrà l’opportunità di affermarsi tra i pro e dare lustro all’Africa sub-sahariana in uno sport che per l’intero continente accoglie tra le top solo la tunisina Ons Jabeur e l’egiziana Mayar Sherif?
Così ha parlato Théoneste Karenzi, presidente della federazione tennistica rwandese, sul quotidiano britannico: «Possiamo incoraggiare il movimento e finanziare le scuole tennis e i tornei giovanili. I problemi cominciano però nel circuito professionistico, perché non possiamo pagare montepremi all’altezza né possiamo finanziare i viaggi all’estero dei nostri giocatori. È un vicolo cieco senza margini di crescita». Sada Nahimana (Burundi) è stata 281esima nel ranking Wta; Eliakim Coulibaly (Costa d’Avorio) 613esimo nella classifica Atp. Entrambi sono stati invitati da Mouratoglou ad allenarsi nella sua accademia in Francia, ma questo privilegio non può essere esteso a tutti i giocatori emergenti. Così la forbice tra i top del mondo e tutti gli altri rischia di allargarsi ulteriormente, lasciando il lusso del professionismo non solo a pochi, ma a sempre meno giocatori. Meritevoli sì, ma soci di un club sempre più esclusivo.