Il primo gol rossonero di Rafael Leão arriva in un giorno triste di inizio autunno. È il 30 settembre del 2019, l’estate è finita da dieci giorni, al Milan non funziona niente. La squadra allenata da Marco Giampaolo ha perso alla prima giornata, contro l’Udinese, alla quarta giornata, contro l’Inter, alla quinta, contro il Torino, e sta perdendo anche alla sesta, contro la Fiorentina. Tre a zero a San Siro, lo stadio è mezzo vuoto, ci sono appena 48mila spettatori sugli oltre 80mila posti disponibili. Mancano dieci minuti alla fine e lui riceve palla sulla sinistra, come sempre. La Fiorentina è chiusa, non c’è spazio per lanciarsi in quelle corse che, negli anni successivi, gli vedremo fare spesso. Ma tiene il pallone attaccato ai piedi, punta l’area verso il centro. Ne salta uno, due e tre. Poi con il sinistro, mira il palo più lontano. Gol, il suo primo, alla terza da titolare.
Il commentatore, in televisione, dice: «San Siro non esulta nemmeno». Nemmeno lui: corre verso il centrocampo, non ride, non sembra nemmeno emozionato. Ha i capelli corti, vent’anni appena compiuti, e sembra un bambino, confrontandolo con il quasi-venticinquenne che vedo in campo ogni domenica, e che è davanti a me in questo pomeriggio di nebbia a Milano. Rafael si muove lento e ondeggia le spalle. È come in campo. Ha delle gambe lunghissime, le spalle larghe. Il paragone tra atleti (soprattutto afrodiscendenti) e grossi felini è spesso pigro e stereotipato, ma nei giorni successivi a questa intervista sono andato a cercare delle clip di ghepardi che camminano e poi scattano a correre verso una preda. E questo ondeggiamento delle scapole, che sono nella parte anteriore delle zampe del felino, è oggettivamente simile a quello di Rafa. Cos’altro? Certo, la velocità. in campo aperto e nello scatto. D’altra parte, mi dico, è normale rifugiarsi in certi paragoni con mondi che non sono umani, per cercare di spiegare il calcio di Rafael Leão. È per giocatori come lui, che sono rari come il diamante, che si può usare propriamente il sostantivo “fenomeno”.
Come succede spesso con questo tipo di giocatori, la luminosità in campo – e cioè, potremmo dire, nell’arte – non va di pari passo con l’espansività fuori dai novanta minuti di gioco. Come succedeva a Ronaldo (il Fenomeno, appunto), come succede a Messi, come accadeva anche a Iniesta, o a Maldini, Rafael è schivo e silenzioso. Non vuol dire che sia infastidito, o antipatico. Infatti canta se c’è una canzone che gli piace allo stereo, e poi sorride sempre, lo dicono tutti. Sta facendo parecchie interviste, e quando gli chiedo se si è stancato scoppia in una risata che vuol dire molto. Poi dice: «No, no, so che fa parte del mio lavoro, sto imparando».
Il 21 febbraio è anche uscito un libro, non proprio un’autobiografia, più un “libro generazionale”. E si chiama Smile. Il libro inizia con il racconto del gol in rovesciata contro il PSG in Champions League, poi torna indietro nel tempo: ai tempi in cui giocava per la strada a Lisbona, ai tempi in cui entrava nell’accademia dello Sporting, ai tempi in cui andava a Lille e la trovava fredda e ostile, ai tempi in cui Giampaolo non gli parlava nemmeno e finalmente incontrava Pioli, Ibrahimovic, Theo. Ai tempi in cui vinceva lo scudetto, arrivava in semifinale di Champions League, esordiva e poi faceva gol al Mondiale in Qatar. Come mai un libro, Rafa? «È l’opportunità per le persone che non mi conoscono bene per capire la mia personalità», dice. «È più o meno un regalo da me a tutte le persone che tifano, i bambini, i giovani, quelli che vogliono arrivare a un alto livello di calcio o anche altri lavori della vita». Parla benissimo italiano, nel libro lo spiega: ha sempre avuto una passione per le lingue, e un certo talento. Ha imparato in fretta anche il francese, in passato. Quando gli chiedo anche qual è stata la cosa che l’ha fatto crescere di più come calciatore lui non parla di un allenatore o di un preparatore, ma dice: «Cambiare Paese quando ero giovane».
Nel libro si parla molto di concetti vaghi quanto minacciosi per un ragazzo: la gente, i media. Sono entità che “pensano”, che “pretendono”, che “chiedono” e che “giudicano”. È una cosa che lo preoccupa, e spiega: «A me personalmente non piace molto parlare con i giornali e con le tv, o avere la mia faccia sui media. Però quando ero più piccolo era peggio». Gli chiedo come fa a resistere, allora, quale strategia s’è inventato, perché alla fine è vero che lui non dà mai scandalo, appare poco, non parla quasi con nessun giornale: «La mia strategia è stata essere sempre me stesso. Stare sempre con le stesse persone. Stare con la mia famiglia. E penso che così tieni lontane le persone che ti vogliono buttare giù. Non è proprio una strategia, però rimanere vicino a delle persone giuste è la cosa più importante».
E come ti sei creato il tuo gruppo di persone giuste a Milano? Dice: «Io non ho tanti amici a Milano. Ho i miei compagni che sono la mia seconda famiglia, sono loro che sono vicini a me quando le cose non vanno così tanto bene. Poi c’è la mia famiglia che viene qua una o due volte al mese, gli amici del mio quartiere. Sono sempre le stesse persone di quando stavo a Lisbona». Però Rafael ha scritto un libro non tanto per raccontare sé stesso, quanto per ispirare i più giovani, dice. Allora non si parla troppo di momenti attuali, quanto più di quelli passati da tempo: un Rafael giovane, che gioca per le strade del Bairro da Jamaica, non troppo distante da Lisbona. È un quartiere abitato soprattutto da famiglie con origini africane, da São Tomé e Principe, Guinea-Bissau, Angola e Capo Verde. «Una vita normale, dopotutto», ricorda nel libro, «però alterata da un piccolo cellulare che mio padre un giorno portò a casa.
Ci potevo scaricare la musica e ascoltarla con loro al parcheggio. Ha cambiato la mia vita in modi che nemmeno potevo immaginare al tempo». La musica è importante, per Leão, quasi quanto il calcio. E, spiega, non vuole essere identificato solo come calciatore. È una richiesta che, normalmente, considereremmo più che legittima: non essere definiti dal proprio lavoro. Una persona che per alcune ore durante il giorno è seduto a una scrivania in una compagnia di assicurazioni non è un assicuratore e basta, non lo è in essenza, e non sarà ricordata solo come quello. Ma siamo abituati a trattare il calcio diversamente da tutti gli altri ambiti, o lavori, dell’esistenza, e così un calciatore deve vivere di calcio, respirare calcio, occuparsi solo di calcio, pensare esclusivamente a quello. Leão dice: io non sono solo un calciatore. Sono anche un musicista, per esempio. Sono un fotografo. «Voglio essere un esempio di uno che ha fatto vedere tutta la sua personalità dentro e fuori dal campo». È una richiesta quasi rivoluzionaria. «Io sono una persona che non vuole solo fare una cosa. Mi piace fare musica, mi piace fare foto, e lo faccio perché è una cosa che mi piace», spiega con timidezza e semplicità.
Il mondo del calcio non solo ti intrappola, ma ti schiaccia la prospettiva. Ti rende bidimensionale, ti pressa come un pezzetto di materia da studiare tra due vetrini di un mi croscopio. Ogni smorfia viene ingigantita, e per centinaia di volte. A Leão non viene perdonato niente per questo suo modo di muoversi, di sorridere, di camminare. Lo ricorda nel libro: «Cominciarono a dire che ero “indolente”. Non avevo mai sentito quella parola, esiste anche in portoghese ma per indicare quello stesso termine viene spesso utilizzata un altro termine: preguiçoso». Lui non risponde mai anche se potrebbe, semmai ogni tanto un tweet tagliente, fatta di un’emoji soltanto, o un retweet di qualcuno, anche un tifoso, che dice più di molte parole usate in prima persona.
Rafa mi racconta: «Non sono una persona che parla con tanta gente, che fa vedere i suoi feelings. Tante cose le tengo per me». E quindi, che fai per esprimerti? «Per me è scrivere che mi fa esprimere quei feelings che ho dentro. Scrivo tutti i giorni». Intende la musica, naturalmente. Torniamo in campo: non è stata la stagione in cui ha segnato di più, ma quella dello scudetto ha mostrato che tra Leão e la normalità c’è una certa distanza, una faglia di dimensioni non sempre uguali che si apre e si chiude a seconda del suo stato di forma. Certe partite la faglia è più ampia, la sua “alienità” lampante, certe altre no. Durante le ultime sei gare del Milan nell’aprile e maggio 2022, in quella cavalcata scudetto esaltante, la faglia ha preso le sembianze di un abisso. Nessuno era in grado di fermare Rafael Leão. Non in due, non in tre, non in quattro. San Siro cantava esaltato: Leão, Leão strascicando quel dittongo sulle note di “Aquarela do Brasil” nella versione di Antonio Carlos Jobim.
Il sinistro al volo contro il Genoa, su cross di Kalulu. L’assist per Giroud nella vittoria contro la Lazio. Il destro strozzato che ha sbloccato la difficile gara contro la Fiorentina. L’ubriacatura di Casale, sventurato difensore del Verona, prima dell’assist a Tonali. Ancora contro il Verona, l’assist del 2-1 sempre a Tonali. Un ragazzino sugli spalti, per festeggiare, tiene la maglia del numero 17 con le mani sporte in avanti, come se fosse una cappa da matador, o una sindone da mostrare ai fedeli. Dice, senza dirlo: questo è il nome e questo è il numero, e ve li ricorderete a lungo. Poi c’è l’Atalanta, e ancora Rafa riceve in profondità, controlla di testa, tiene a bada due difensori e segna l’1-0 di una gara decisiva. Infine, a Sassuolo, l’apoteosi. Tre gol del Milan, tre assist di Rafa. Il Milan è campione, Leão alla fine piange, abbracciato al padre. Quando ti sei accorto di essere così più forte degli altri? Che potevi diventare uno dei migliori al mondo? Dice: «Da piccolo. Quando ho cominciato a giocare con gli altri bambini vedevo che riuscivo a fare cose diverse. Poi a diciotto anni, quando sono arrivato in prima squadra, lì nella mia testa ho pensato: forse posso arrivare a un grande livello nel calcio». È più importante il corpo o la testa? Ci pensa un po’. Dice: «La testa».
È vero, l’impressione generale è che Rafa possa spaccare il mondo ancora più di quanto stia già facendo, se solo… Se solo? Questa è la domanda più difficile a cui rispondere, perché non è, come dicono i maligni, una questione di rispetto, di atteggiamento. È più una cosa di pressione, intesa come quella dell’aria o dell’acqua, che si deve mantenere costante nel tempo e senza subire sbalzi per far procedere al meglio il motore di una macchina, senza passaggi a vuoto, senza sbalzi. Certo è che ci stupiamo ormai sempre meno di quello che fa Rafa Leão, perché abbiamo visto dove questo ragazzo può arrivare: i due assist contro la Lazio, a Pulisic e Okafor, bruciando tutti. Il gol in rovesciata contro la Roma. Il destro di prima sotto l’incrocio, arrivato dopo un triangolo iniziato con un suo colpo di tacco, contro il Rennes.
È quasi un peccato scrivere di questi pochi esempi concreti, perché quando questa rivista uscirà in edicola Rafa avrà fatto altre accelerazioni, altri assist, altri gol. C’è una cosa, successa a febbraio 2024 nella vittoria per 3-0 contro il Rennes, che si era vista poco in passato. È l’esultanza. Dopo quel gol di destro non fa la posa del surfista, non una corsetta trattenuta prima del caratteristico abbraccio con un compagno. Ma un urlo a occhi chiusi, forse di rabbia, forse di liberazione, forse di soddisfazione e consapevolezza. Rabbia che si è vista anche qualche giorno dopo, con il gol capolavoro segnato contro l’Atalanta: finalmente un destro preciso e potente, scagliato come un urlo contro tutto, non soltanto contro la porta di Carnesecchi. Ho pensato: questa nuova rabbia potrebbe essere un modo di regolare meglio la pressione, da alternare al sorriso per rendere al meglio. Anche se Rafa Leão, numero 10 del Milan, calciatore silenzioso e fenomeno schivo, è un calciatore molto umano e poco macchina. Anche per questo è così bello da vedere, anche per questo gli si perdona tutto.