Domenica, primo maggio 1994. Ayrton Senna era arrivato al circuito poco dopo le otto, in elicottero da Castel San Pietro, accompagnato da Leonardo. Aveva parlato lungamente con Berger. Argomenti principali: sicurezza in pista e l’assurdo atteggiamento della federazione il giorno precedente, quando era stato colpevolizzato per aver voluto raggiungere il luogo dell’incidente di Ratzenberger. Quindi si era diretto verso il motorhome Williams, aveva indossato la tuta e si era preparato per il warm up. In quegli stessi minuti la sala stampa si stava riempiendo nonostante fosse il primo giorno di maggio, una festa anche per chi scrive, stampa e pubblica quotidiani. Ma era un giorno diverso dagli altri, percepito così negli istanti che separano il sonno dalla veglia, in ogni camera d’albergo. Lo si poteva intuire facilmente. La tipica atmosfera da bar della domenica mattina, fatta di chiacchiere e battute ad alta voce, era stata sostituita da una compostezza anomala. Tutti a muoversi con cautela, come se avessimo preso, da pochissimo, un sacco di botte. Ossa doloranti, ferite, lividi e fasciature. Chi prima, chi dopo, avevamo fatto visita al box di Ratzenberger, cercando di trasmettere alle persone della squadra ciondolanti e stordite un cordoglio, un’impacciata solidarietà.
Tenevamo d’occhio Ayrton. Lo tenevamo d’occhio sempre, comunque, e non lo avremmo certo trascurato ora. Dopo averlo intravisto infilarsi nel suo motorhome, mi sistemai davanti al box, in attesa. Arrivò poco dopo, appoggiò il casco da qualche parte e si mise a parlare serio serio con i suoi uomini. Sembrava un’arringa, frasi brevi, la punteggiatura della determinazione. Entrò nella macchina piazzata proprio davanti al mio naso, gli feci un cenno di saluto, certo di non essere visto, ricambiato figurarsi. Era una specie di rito per me, come dire:«Ecco perché sono qui», il resto interessa meno, conta meno. Un saluto al capouffcio, all’inizio di una giornata di lavoro. Sembrava che pure lui mi stesse guardando, ma non poteva vedermi, non avrebbe visto niente, nessuno, si trovava già altrove, già partito, in pista, lungo traiettorie da ripassare e rifinire, in attesa di mettere dentro la prima. Ne avevamo parlato, una volta, non ricordo dove, a Silverstone, forse, in Inghilterra, scherzandoci su. Aveva detto: «Ah ciao, sei arrivato solo ora?». Gli avevo risposto: «Caro, sono rimasto a guardarti lavorare per un’ora. Possibile che non te ne sia accorto? Ero quel fantasmino con la faccia da idiota a tre metri da te».
Il warm up era appena iniziato. Senna, in accordo con la televisione francese, aveva commentato via radio un giro di pista prima di spingere davvero. Sapeva che Alain Prost si trovava nella cabina dei telecronisti, collegato, in ascolto. Sorprendendo tutti disse:«Vorrei mandare un messaggio a Alain Prost: Alain, mi manchi». Poi si infilò nel rettilineo e prese a girare, a tirare. Miglior tempo, con un vantaggio su Schumacher di circa un secondo. La notizia di quella frase affettuosa, dedicata a Prost, fece il giro del paddock in un baleno. In altri momenti sarebbe stata analizzata, sezionata, discussa, avrebbe fornito materiale per decine di domande. Quella mattina sembrò semplicemente una carezza concessa a sorpresa non soltanto a Prost, ma a ciascuno di noi.
Dopo il warm up era prevista, come al solito, la riunione tra i piloti e la direzione corsa. Senna, poco prima, aveva parlato a lungo con Niki Lauda e insieme avevano stabilito di organizzare un incontro la settimana successiva con Jackie Stewart e Alain Prost per decidere cosa proporre sul tema sicurezza. Uscendo dal briefing trovò una pattuglia di giornalisti pronta alla marcatura stretta. Fece capire di non voler rilasciare dichiarazioni. Pronunciò soltanto una frase: «La Formula Uno non sarà più la stessa dopo questo fine settimana». Poi si ritirò per preparare la gara. I minuti che precedono il via di un Gran premio vanno di corsa pure loro, come un conto alla rovescia accelerato. Ogni persona che, per ragioni diverse, si trova tra il paddock e la linea del traguardo segue un programma preciso, dettato dalle incombenze, dalle scaramanzie, da una tensione che monta, prende e va convogliata in qualche modo, come se si trattasse di una replica, routine, parte del gioco. I comportamenti e i movimenti stanno in una procedura personale che toglie di mezzo ogni genere di interferenza. Così accadde anche quel primo giorno di maggio, finalmente, perché soltanto occupandoci di un presente scandito e intasato ma in fin dei conti consueto, potevamo far sparire ciò che era accaduto nei giorni precedenti, diluirlo a mano a mano che trascorrevano i minuti. Ero tornato davanti al box di Ayrton. L’avevo accompagnato mentre entrava in macchina e rapidamente andava via e percorreva un giro di pista per raggiungere il suo posto sulla griglia di partenza.
Mi trovavo lì quando arrivò sulla piazzola della pole. Si tolse il casco, il passamontagna bianco, e rimase nella macchina, preso dai suoi pensieri. Non era un comportamento inconsueto. A differenza della maggioranza dei suoi colleghi, preferiva rimanere nell’abitacolo, isolato e indisturbato, mentre attorno a lui si sviluppava quel caos organizzatissimo che precede il momento di sgomberare la pista. Notai con sorpresa di trovarmi in una compagnia molto ridotta attorno alla Williams. C’era una ressa ben superiore nei pressi della Benetton di Schumacher, per non parlare delle persone, moltissime, che circondavano la Ferrari di Berger, appena più indietro.
Ho ripensato tante e tante volte a quel momento di quiete in cui avevo osservato Ayrton prima di andarmene per non vederlo mai più. Ho cercato di afferrare un dettaglio nascosto, l’ombra minuscola di un presentimento. Di questo avrebbero detto e scritto in molti nei giorni, nelle settimane, nei mesi successivi. Senna? Turbato, spaventato, strano. Eppure, perlustrando i fotogrammi, ripassandoli alla moviola, vedevo soltanto Ayrton Senna che andava a correre, che si apprestava ad affrontare una corsa importante, una corsa che non voleva, forse non poteva, perdere.