Il giorno prima della partita di Europa League, Roma-Brighton, del 7 marzo 2024, due tifosi inglesi sono stati aggrediti e feriti con arma da taglio. Le ferite, per fortuna, non sono state gravi. Uno dei due tifosi, intercettato poi all’ingresso dell’Olimpico ha detto: «Fa tutto parte del divertimento, sono sopravvissuto, mi fa solo un po’ male il culo». Ho riletto la frase tre o quattro volte, ho sorriso, naturalmente, poi mi sono soffermato sulla parola divertimento, una delle mie ossessioni e anche una questione che riguarda molto da vicino gli ultimi quaranta se non cinquant’anni. La gente deve divertirsi ed essere intrattenuta, da queste basi del resto muove il capolavoro di David Foster Wallace, Infinite Jest. Ciò che è ancora più interessante è il come, non esiste una maniera di divertirsi che vada bene per tutti – eppure, ci provano a convincerci del contrario – ognuno ha la propria. Io, per esempio, trovo più divertente un romanzo complesso di Philip Roth o di DeLillo che le battute di un comico. Siamo diversi. Rispetto al tifoso del Brighton, ho pensato – credendo di capire – all’amore per la squadra, che c’entra, ma non può essere solo quello. Per lui nel divertimento rientravano l’essere a Roma il giorno prima, fare baldoria con gli altri tifosi, forse la rissa, e dopo rientravano anche le coltellate. Non importava nulla, non faceva drammi, era allo stadio, aveva una storia da raccontare, probabilmente, molto più interessante dei quattro gol che avrebbe subito la sua squadra del cuore quella sera. E ho pensato, rispetto al calcio, a cosa avrebbe divertito me, a cosa da sempre diverte me.
Mi diverte quello che succede sul rettangolo verde, solo quello, mi interessano il gioco, la giocata bella, l’assist, il dribbling, la rovesciata, l’armonia, il gol. Per questi motivi ho detto spesso di non aver tifato abbastanza, di non saperlo fare, e non lo sapevo fare nemmeno quando andavo in curva a Napoli negli anni Ottanta. Osservavo gli ultras, provavo simpatia, li abbracciavo in caso di gol, ma non li capivo e non capivo quando mi si mettevano davanti impedendomi di vedere uno spicchio di campo, non capivo i loro capi che davano le spalle al terreno di gioco, sempre, dal primo all’ultimo minuto. Sentivo che esistevano dei codici a me allora sconosciuti, misteri che col tempo ho risolto ma che dubito di aver afferrato fino in fondo, continuo a rispondere ai miei codici che nel tempo si sono ridotti a un rapporto individuale con la partita, momenti che al massimo condivido con le mie cagnoline. Io sono felice così, il tifoso del Brighton è felice così, gli ultras del pianeta sono felici ognuno a modo loro e a modo loro all’interno del gruppo di appartenenza e nessun gruppo di tifo organizzato si somiglia e nessuno somiglia a qualunque altro tipo di associazione di persone che ci possa venire in mente.
Nelle stesse ore in cui il tifoso del Brighton dichiarava il suo divertimento io leggevo un bellissimo saggio che riguarda il calcio e il tifo ma ha a che fare con l’antropologia, e quindi con i mutamenti sociali, con gli aspetti radicali che stanno alla base della nascita di gruppi di persone accomunate, ma soltanto in superficie, dalla passione per una squadra di calcio. Non è solo questo, non è mai solo questo, il calcio è un aspetto, forse nemmeno il più importante della questione. Il libro è Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo, l’autore è il bravissimo giornalista e scrittore inglese James Montague e lo ha pubblicato 66thand2nd con la traduzione di Leonardo Taiuti.
Montague ha il talento del grande romanziere, possiede quella particolare capacità che consente di prendere una storia così com’è e renderla raccontabile. E poi ha la tenacia del grande reporter, di colui che si assume i rischi e va di luogo in luogo, e perciò di città in città, di nazione in nazione, di stadio in stadio. Il suo testo è (e sarà) imprescindibile ogni volta che rispetto al tifo organizzato ci faremo domande del tipo: Com’è possibile?
Chi «guarda la partita con le spalle rivolte al campo» combatte contro il conformismo? Contro ciò che la società ci impone come normalità? Può darsi, secondo Montague sì e vale la pena interrogare queste persone, stargli vicino, ascoltarli recitare cori che sembrano preghiere, preghiere che si trasformano in inni, capire come questi inni siano d’amore e d’odio, quasi sempre in contemporanea. Nell’ultima tappa del suo viaggio, Montague, sta attraversando di corsa un’autostrada indonesiana mentre un gruppo di hooligans – chi scrive questo pezzo ignorava che in Indonesia si tifasse per qualcosa, figuriamoci che esistessero gli ultras – armati di machete lo insegue. L’autore crede che non sopravvivrà ma fa in tempo a domandarsi se ne sia valsa la pena. Però quell’istante è un fotogramma perfetto, è la sintesi precisa – prima dei titoli di coda -del suo racconto. La fuga dai machete concentra su di sé tutte le complessità, contraddizioni, le ambiguità, le diversità e il fascino estremo della sottocultura (ma viene da utilizzare di nuovo il termine controcultura) del tifo organizzato. Montague ne è uscito vivo e ha scritto uno dei libri più interessanti che mi sia capitato di leggere di recente. Lo ringrazio per essere andato a farsi inseguire al posto nostro, mentre da casa guardiamo un calcio di rigore contro la nostra squadra del cuore, con una birra in mano, sperando che l’attaccante di turno spedisca il pallone sugli spalti, magari sulla schiena di uno che sta dando le spalle alla porta e al campo.
Montague attraversa tutto il pianeta tifo, dal Sudamerica, all’Europa dell’Est, tra i barras bravas argentini e i Rodychi ucraini. Li interroga, li studia, assiste alle riunioni, a volte viene accettato altre no, viene visto con curiosità e con sospetto. Benvenuto o meno, è sempre l’altro, uno che sta fuori da quel mondo. Uno che osserva la curva, ne capisce regole e ragioni, che sa raccontarla, ma che non sarà mai uno della curva. Ecco perché – per esempio – su un bus carico di ultras diretto a Berlino sarà costretto a sedersi da solo, mentre tutti parlano rigorosamente in tedesco, ecco perché da quel bus scenderà dalle parti di Lipsia e proseguirà il percorso in treno. L’essere guardato con sospetto è parte integrante dell’indagine dell’autore. Gli ultras che siano di destra o di sinistra, cattolici o meno, indonesiani o croati, non ti includono, ti lasciano guardare, magari rispondono alle domande, ma poi ti danno le spalle come al campo. Tu fai parte del sistema, noi no, tu sei dentro le regole generali, noi abbiamo le nostre, tu tornerai a guardarti le tue partite in tribuna, noi la curva non la lasceremo mai.
Montague mette in luce le differenze tra i vari gruppi, che sono maggiori delle somiglianze, perché chi porta in curva un messaggio di estrema destra è diverso da chi ne porta uno di estrema sinistra, eppure c’è un punto che li lega, il modo in cui si guarda al calcio, il modo in cui supportare la squadra diventa la scelta politica, l’unico ideale possibile, l’unica frontiera lungo la quale ritrovarsi. Montague esplora e riesce a cogliere a volte in pieno, a volte in maniera più laterale, le ragioni per le quali un gruppo di ultras ne odi un altro che sostiene una squadra di un continente lontano. Si intrufola lungo quel confine sottile che separa il sostegno dalla violenza estrema, e poi risolve, trovando negli occhi di alcune di queste persone il desiderio di appartenenza. Molti, esclusi in qualche modo dalla società, trovano nella curva una sorta di casa, una casa che sono pronti a difendere a ogni costo. L’onore ma anche la speranza, l’odio ma anche la fratellanza.
Il libro è accompagnato da un bellissimo apparato fotografico, perché a volte bisogna guardare le facce. Montague ha viaggiato, ha scritto, ha intervistato e non ha trovato la risposta alla domanda: «Cosa significa fare parte degli ultras oggi?» La sua domanda si è sciolta in decide di sotto-domande e perciò in centinaia di piccole risposte, alcune aggressive, altre fatte con il sorriso sulle labbra, altre dette senza pronunciare verbo. Risposte ottenute grazie alla fiducia concessagli e a quella che non gli è stata data. I tifosi organizzati hanno un teorema: data la regola troviamo un nuovo modo per infrangerla. Cantare, sì, cantiamo, ma questo è solo un aspetto minuscolo del discorso che ti stiamo facendo. L’autore forse con qualcuna di queste persone ha raggiunto una confidenza, qualcosa che può ricordare vagamente un’amicizia ma niente di più. Chi di loro dovesse leggere le pagine del saggio, però, non potrà che ammettere l’onestà e la bravura di Montague: la loro storia esiste perché qualcuno ha guardato oltre le loro schiene e l’ha raccontata.