Il nuovo salary cap della Premier League influenzerà il resto del mondo?

Il campionato inglese ha votato a favore di un nuovo regolamento per limitare le spese dei club: non riguarda solo gli stipendi e potrebbe innescare una rivoluzione.

Se esiste una periodizzazione storica nel mondo del calcio, questi sono gli anni in cui la Premier League domina dal punto di vista economico e ogni estate ci ricorda che non c’è competizione con il resto d’Europa. Niente può fermare la bulimia di acquisti e spese fuori mercato delle squadre inglesi. O meglio, riformulando: solo la Premier League può mettere un freno alle spese della Premier League. Ed è esattamente quel che è successo la settimana scorsa. Una maggioranza di sedici squadre su venti ha votato per l’introduzione di un tetto alle spese per trasferimenti, stipendi e compensi agli agenti (per questo non si parla di semplice salary cap, ma di spending cap). L’obiettivo non è essere più frugali tanto per darsi un tono – che comunque non guasterebbe: Bbc Sport, per dire, ha stimato i debiti aggregati del massimo campionato inglese in circa 3,6 miliardi di sterline – ma ridurre le differenze tra squadre grandi e piccole.

Cominciamo col dire che non c’è ancora nulla di definitivo. Per ora si è stabilito che si può lavorare a un progetto da presentare a giugno, e da discutere e votare nelle settimane successive con la prospettiva di renderlo operativo per il 2025/26. Adesso è iniziata la fase delle trattative, in cui si devono mettere d’accordo le parti coinvolte: la Professional Footballers’ Association (PFA, il sindacato dei giocatori, al momento contrario), la Federazione inglese (FA), la English Football League (EFL) e la Premier League. In caso di approvazione il nuovo sistema andrebbe a sostituire l’attuale Profit and Sustainability Regulations (Psr).

La spinta riformista viene dai club più piccoli e meno forti economicamente, convinti che il divario con le squadre più ricche sia aumentato troppo, riducendo quindi la competitività interna al campionato: in pratica è la storia dell’aumento delle disuguaglianze nel mondo occidentale negli ultimi trent’anni, solo circoscritta a un campionato di calcio. La Premier ha capito che qualcosa va regolato nell’intero sistema economico, e che anche senza fare una rivoluzione si può iniziare a riformare un sistema che, piaccia o meno, ha portato maggiori ricchezze e insieme maggiori disuguaglianze, più spettacolo e più violazioni delle regole.

Finora quasi tutti i regolamenti per tenere sotto controllo le spese – dal Financial Fair Play della Uefa al salary cap della Liga – sono stati disegnati sulle grandezze dei singoli club, consentendo uscite proporzionali al loro bilancio. In questo modo, però, per le squadre piccole diventa sempre più difficile accorciare la distanza con quelle più ricche: nel lungo periodo le differenze si cristallizzano, o peggio aumentano. Allora l’idea alla base della nuova proposta inglese è creare un limite di spesa comune, uguale per tutti. È l’approccio più semplice del mondo: basta individuare una soglia, una cifra da non superare, stagione per stagione, poi serve uno schema di sanzioni per chi non rientra nei parametri e il gioco è fatto.

La parola chiave del piano è “ancoraggio” (anchoring). Il punto in cui fissare l’ancora, in questo caso, è negli introiti legati ai diritti televisivi della squadra arrivata ultima nel campionato appena concluso; quel numero va poi moltiplicato per un fattore stabilito a priori: il risultato della moltiplicazione è la cifra che un club può spendere. Al momento il fattore ipotizzato è 4,5, ma la trattativa in corso vede i club più piccoli spingere per portarlo a 4 e i più grandi che vorrebbero aumentare a 5. Inoltre l’ancoraggio dovrebbe integrarsi con un altro parametro, teoricamente più ampio, cioè quello dei ricavi di ogni singolo club: le squadre non qualificate per le coppe europee potranno spendere fino all’85% delle loro revenue, mentre chi è in Europa non può superare il 70%.

Nel 2022/23 il Southampton arrivato ultimo ha incassato 103,6 milioni di sterline, se il moltiplicatore fosse 4,5 la cifra massima di spesa sarebbe 466 milioni di sterline, che al cambio attuale sono 544,67 milioni di euro. Che è una cifra comunque altissima, più alta ad esempio di qualunque cifra disponibile per i club italiani, per fare un esempio. Ma quest’anno Chelsea e Manchester City sarebbero andati oltre i limiti consentiti: i Blues hanno speso una cifra vicina ai 630 milioni di euro, i Citizens sono arrivati a 586 milioni, poù o meno. Non a caso, viene da dire, il City è stata una delle tre squadre a votare contro la riforma – affiancato solo da Manchester United e Aston Villa. Il Chelsea si è astenuto.

Raccogliendo insieme più voci di spesa, il piano della Premier si distanzia ad esempio dal salary cap della Liga, che è invece un limite al costo della rosa (in spagnolo è Limite de coste de plantilla deportiva) ma non riguarda i prezzi dei cartellini. Il campionato spagnolo ha dato ai club un tetto massimo per i salari di calciatori e staff tecnico della prima squadra, ma anche per le spese delle società controllate, delle squadre giovanili e le altre sezioni del club. Una forma di salary cap c’è anche in Italia. In Serie B è in vigore da una decina d’anni ormai, con alcune modifiche fatte nel tempo. L’idea è sempre stata quella di contenere i costi del personale, incoraggiare i club a sostenersi tramite i propri ricavi, quindi tutelare la sostenibilità a lungo termine dell’intero sistema. Ma in Serie B ci sono società più piccole, molto più fragili dei giganti della Premier League. Per questo è difficile paragonare la logica di un regolamento con l’altro. Così come non si può paragonare lo spending cap ipotizzato dalla Premier con i salary cap delle maggiori leghe sportive degli Stati Uniti. Intanto perché quelle americane sono leghe chiuse, non inserite in un mercato globale come i campionati di calcio europei. E poi perché non c’è il player trading che in Europa occupa una quota molto grossa delle spese di un club.

Tutte queste misure adottate negli ultimi anni hanno un grosso limite comune, e cioè che impongono dei paletti economici a un gruppo ristretto di squadre – generalmente su base nazionale, o solo per alcune leghe – che però sono inserite in un mercato globale e anche piuttosto libero. Insomma, hanno i limiti di quelle leggi nazionali che toccano argomenti sovranazionali, come le politiche migratorie, le politiche ambientali, la tassazione delle Big Tech e così via.

Se il Manchester City dovesse vincere la Premier League 23/24, centrerebbe un record storico: nessuna squadra inglese, infatti, ha mai vinto il titolo nazionale per quattro anni di fila (Matt McNulty/Getty Images)

Le società più piccole della Premier ritengono di dover ridurre il divario di spesa rispetto ai vertici della classifica, per rendere il campionato più equilibrato, quindi più incerto, forse più combattuto e con maggior ricambio nell’albo d’oro – per la verità un po’ monotono negli ultimi anni. Per esempio, l’esperto di economia legata al calcio Kieran Maguire ha detto ha detto a Sky che «i club più avvantaggiati dovrebbero essere sarebbero quelli come Brentford, Brighton e Bournemouth che hanno salari modesti e quindi potrebbero raddoppiare o triplicare i costi e stare comunque dentro le regole», a differenza delle big. Mentre il Manchester United si è opposto alla proposta di riforma perché è convinto – con alcune ragioni – che le nuove regole rallenterebbero il suo processo di rebuilding. E come il Manchester United, anche il City, il Chelsea e l’Aston Villa temono che questa riforma finirà col peggiorare i risultati delle squadre inglesi in Europa, danneggiando l’intero movimento nazionale, a livello economico e d’immagine.

Quest’ultimo punto offre una prospettiva diversa sullo spending cap. Perché negli ultimi anni il prestigio dei campionati nazionali si è assottigliato, cedendo visibilità alle competizioni europee. E forse la nuova Champions League allargata accentuerà questa tendenza. È il motivo per cui, nonostante la maggioranza della Premier abbia votato a favore dell’introduzione di una riforma economica, molte voci suggeriscono che chi si è opposto possa essere accontentato con diverse concessioni e una legislazione complessivamente più morbida. Proprio in questi giorni, mentre dà la massima copertura possibile alla riforma economica del campionato inglese, The Athletic ha pubblicato un articolo con questo titolo: “La Premier League dovrebbe spostare le partite per aiutare i suoi club in Europa, come fanno le altre nazioni?”.

Sembra una protesta passivo-aggressiva contro quelle squadre che hanno il vantaggio di giocare il venerdì o il lunedì a ridosso di una partita importante nelle coppe europee. E non è un caso che il problema venga fuori nell’anno in cui, nell’ordine: il campionato più grande del mondo non è rappresentato alle semifinali di Champions League; l’unica squadra inglese ancora presente nelle coppe è l’Aston Villa, in Conference League; la Premier non ha ottenuto il quinto posto nella nuova Champions League 2024/25. L’obiezione di alcuni club inglesi è la stessa che faceva Daniele De Rossi quando chiedeva alla Serie A di non far recuperare i venti minuti di Udinese-Roma prima della doppia semifinale con il Bayer Leverkusen. Anche se il regolamento stabilisce che si deve giocare alla prima data utile. Perché chi gioca le coppe preferisce piegare e ripiegare in corsa il calendario del campionato, sia quello inglese o quello italiano, spagnolo o tedesco, pur di avere un piccolo vantaggio in Europa.