L’Atalanta di Gasperini ha davvero normalizzato lo straordinario

Quando sembra impossibile per questa squadra e questo allenatore fare di più di quello che hanno già fatto, arrivano partite come quella di ieri sera con il Marsiglia.

È la stagione di quelli che hanno aspettato a lungo, questa. È la stagione del Bayer Leverkusen, che dopo una vita intera di ristrettezze quest’anno si gode l’abbondanza, si concede l’esagerazione. È la stagione dell’Olympiakos, che contro la Fiorentina giocherà la prima finale europea della sua storia e la giocherà pure in casa (anche se non nella sua casa: lo stadio in cui si disputerà la finale è quello dell’AEK Atene, l’Agia Sophia). Ed è ovviamente la stagione dell’Atalanta – anche se, quante volte abbiamo usato questa frase negli otto anni in cui Gian Piero Gasperini è stato l’allenatore dell’Atalanta? – anche lei in finale di una competizione europea per la prima volta. Come tutte le volte il pronostico favorisce gli avversari, quel Bayer Leverkusen che sembra ormai sostenuto, spinto, mosso dai favori di una forza sovrannaturale che sembra averlo scelto come suo prediletto: il Leverkusen non riesce a perdere, e ora le partite consecutive da imbattuto sono 49 e il record del Benfica della leggenda è battuto. Conoscendo l’Atalanta, conoscendo Gasperini, c’è da essere certi che tutto questo si aggiunge all’ebrezza per la finale che verrà: non solo la possibilità di vincere l’Europa League, di essere la prima squadra italiana a vincere questa competizione dalla (ri)fondazione a oggi, di mettere il primo trofeo continentale dentro la sua bacheca. Già sarebbe tantissimo, già è tantissimo. Ma se a tutto questo si aggiunge pure il piacere sottile, crudele – il calcio è d’altronde innanzitutto una forma applicata di Schadenfreude – di rompere la perfezione del Leverkusen, di fare lo sgambetto alla squadra che sta compiendo la corsa perfetta, di diventare la squadra più hype d’Europa battendo una squadra che più hype non potrebbe essere, questa stagione dell’Atalanta potrebbe diventare non solo uno dei più adorati ricordi dei suoi tifosi ma anche un pezzo dell’immaginario collettivo di tutti i tifosi.

È un’altra maniera, questa, di interpretare le parole di Gasperini sulla meritocrazia. Indossando l’abito del capo popolo (uno dei suoi abiti preferiti, bisogna dirlo), l’allenatore ha definito la sua squadra – e implicitamente se stesso – come un motivo di speranza. «Sembra che bisogna avere necessariamente le Super Leghe, ma l’esempio dell’Atalanta può dare speranza. Il calcio è bello per meritocrazia, non per diritti acquisiti geneticamente». Come suo solito, Gasperini non si preoccupa di essere né moderato né istituzionale né simpatico. Parla esplicitamente di Super Lega, la descrive ancora una volta come il contrario dell’ideale alla cui realizzazione il calcio dovrebbe aspirare: vince il più forte o il più bravo o il più ricco o il più potente o il più fortunato, ma la possibilità di partecipare, l’accesso alla competizione è una cosa che si decide in campo, non negli uffici. E fa un passo addirittura oltre, stavolta: parlando da una posizione di forza grandissima, Gasperini usa un avverbio (“geneticamente”) che esprime tutto lo sdegno per un futuro del calcio basato sui quattro quarti di nobiltà del sangue, su privilegi ereditati da un passato che si pretende di trasformare in eternità. In fondo, Gasperini non può pensare, dire e fare altro, il suo è un ragionamento che prescinde ovviamente tutti i discorsi su sostenibilità economica e vendibilità del calcio, sullo sport come brand e prodotto: Gasperini deve dire quello che ha detto, perché per lui è una questione di autoconservazione, di sopravvivenza. L’Atalanta non potrebbe esistere nella versione del calcio che alcuni vorrebbero realizzare, e in questa versione del calcio Gasperini non avrebbe mai potuto «normalizzare lo straordinario», come ha detto James Horncastle dopo il 3-0 dell’Atalanta ad Anfield contro il Liverpool nel quarto di finale di Europa League.

«Normalizzare lo straordinario». Proprio questa è la frase che meglio di tutte riassume quasi un decennio di Gasperini (non c’è più bisogno di ricordare che c’è stato un Gasperini prima dell’Atalanta, né di sforzarsi di immaginarne uno dopo: questa esperienza è stata così totalizzante da cancellare dalla nostra consapevolezza qualsiasi realtà in cui Gasperini non è l’allenatore dell’Atalanta) a Bergamo, un’esperienza collettiva il cui lascito, la cui eredità, la cui influenza è ancora impossibile da misurare come sempre succede con tutti i fenomeni mentre ancora si stanno manifestando (una certezza però ce l’abbiamo già: solo Gasperini può far segnare quei gol a Lookman, Ruggeri e Touré, lo sappiamo perché in questi anni queste eccezionalità le abbiamo viste succedere tantissime volte, così come abbiamo visto l’improvvisa normalizzazione di questi giocatori non appena lasciano Bergamo, convinti grazie a Gasperini di essere più di se stessi). Il punto però è proprio questo: ogni volta che abbiamo pensato che il fenomeno Atalanta fosse finito, che questo evento estremo avesse finito di mostrarsi ai nostri occhi e di stravolgere l’ecosistema calcistico e la nostra stessa percezione della realtà del pallone, ogni volta abbiamo scoperto che avevamo assistito solo a un’altra fase del fenomeno. Solo a un suo aspetto momentaneo, intermedio, passeggero, a un attimo in quello che sembra essere un fenomeno in tutto e per tutto simile a quelli naturali: infinito, con l’innata capacità di perpetuarsi ma senza mai ripetersi, di ogni volta ripresentarsi ma sempre in una versione che non è identica alla precedente. Tante volte in questi anni abbiamo detto che l’Atalanta di Gasperini aveva offerto ormai il suo ultimo spettacolo, che non fosse pensabile mantenere una tale rilevanza prima in Italia, poi in Europa, con mezzi tanto ristretti, facendo talmente tante concessioni alle necessità economiche e al funzionamento di un sistema che coltiva la fantasia inconfessabile – ma ormai palese – di espellere da se stesso, di separare da sé entità per esso inconcepibili, inaccettabili, inimmaginabili come l’Atalanta. E invece l’Atalanta ha normalizzato lo straordinario, appunto, e lo ha fatto in un ambiente avverso, per un periodo di tempo entro il quale la maggior parte delle squadre del mondo fa in tempo a vivere, morire e risorgere, più di una volta.

Ieri sera, abbiamo assistito all’ennesima nuova fase di questo fenomeno naturale così simile a un temporale: quotidiano, previsto, eppure sempre sconvolgente, attraente. Chissà, forse stavolta siamo arrivati davvero alla fase finale, perché è veramente difficile, persino per chi ha normalizzato lo straordinario, immaginare di andare oltre, di fare di più. In ogni caso, il fenomeno Atalanta sarebbe così perfettamente compiuto: una gran finale per il gran finale.