I piloti automobilistici italiani come l’Uruguay del calcio. Il parallelismo, geniale, è uscito dalla penna del giornalista di Autosprint Mario Donnini, che nel suo ultimo libro Formula 1 – Campionissimi e Grandi Record (Giorgio Nada Editore) scrive così: «Noi italiani, a livello di blasone dei piloti, stiamo all’automobilismo da corsa come l’Uruguay sta alla storia del calcio. All’inizio contava molto, tanto, quasi tutto e poi, progressivamente, ha finito con il rappresentare il due di coppe quando briscola è bastoni, pur con qualche segnale di interessante ma non decisiva e capovolgente vitalità». Eppure stiamo parlando di un Paese, il nostro, di grandissima cultura e tradizione sportiva motoristica, tanto a livello di élite (Ferrari e, in passato, Alfa Romeo e Maserati) quanto nel sottobosco delle categorie minori, con il team veneto Prema quale fiore all’occhiello dall’alto dei suoi 72 trofei, equamente divisi tra piloti (citazione obbligatoria almeno per Leclerc, Piastri, Gasly, Ocon e Mick Schumacher) e squadra, conquistati in quarant’anni di attività. Il problema per il nostro Paese non è ai box, ma dietro al volante. Non è una questione di (mancanza di) talento, perché piloti bravi ce ne sono sempre stati, ma sono progressivamente scivolati ai margini, lontani dalle posizioni di vertice, dal podio, dalla possibilità di competere per un titolo mondiale o, quantomeno, di ambire a qualcosa in più di un ruolo da sparring partner.
Lasciando da parte il bottino massimo, che un pilota italiano non raccoglie dal 1953 con Alberto Ascari, è il digiuno da tutto il resto a lasciare interdetti. Un nostro pilota non lotta per il Mondiale dal 1985, quando Michele Alboreto, a sei GP dalla fine, con la sua Ferrari si trovava appaiato alla McLaren di Alain Prost, salvo concludere la stagione in maniera rovinosa con quattro ritiri consecutivi; un secondo posto più bruciante di quello ottenuto nel 1992 da Riccardo Patrese su Williams, mai davvero in lotta contro il compagno di squadra Nigel Mansell, dominante fin dalle prime uscite. L’ultima gara vinta da un italiano risale al 19 marzo 2006 grazie a Giancarlo Fisichella su Renault, e il pilota romano detiene anche il primato dell’ultima pole, centrata a Spa nel 2009 su Force India. Dopo, solo piazzamenti, con i migliori ottenuti da Vitantonio Liuzzi, sesto nel 2010 in Corea del Sud su Force India, e da Antonio Giovinazzi, quinto nel 2019 in Brasile su Alfa Romeo. Giovinazzi è, per ora, l’ultimo pilota tricolore ad aver frequentato attivamente il Circus, e la sua uscita non è stata certo determinata da modeste capacità di guida, come dimostrato la scorsa stagione nel WEC (World Endurance Championship), dove con la Ferrari ha vinto, assieme ai compagni Alessandro Pier Guidi e James Calado, la 24 Ore di Le Mans.
Il problema, che ovviamente non riguarda solo l’Italia, è la strozzatura creatisi per accedere alla Formula Uno, il cui passaggio è diventato un imbuto sempre più stretto, condizionato da fattori non riguardanti solamente le qualità dei piloti, e frammentato in una serie di bivi che possono deviare e disperdere il talento anziché valorizzarlo. Come nel caso di Liuzzi, che si è trovato in Red Bull al momento sbagliato, quando il team era ancora un enorme work in progress, dovendo poi accontentarsi di una carriera in scuderie poco o per nulla competitive. Nelle ultime 12 stagioni, per sette volte il vincitore della F2 non ha compiuto il salto nella categoria superiore, o meglio, chi l’ha fatto non ha trovato un sedile disponibile, ma solo un posto da terzo pilota. Come Felipe Drugovich, campione 2022, all’Aston Martin. Il suo predecessore, Oscar Piastri, è stato costretto a stare fermo un anno per poi accasarsi alla McLaren, abile nell’approfittare dei tentennamenti delle Alpine sulla collocazione dell’australiano. L’ultimo in ordine di tempo, Theo Pourchaire, è andato nelle IndyCar Series, nonostante fosse legato a una scuderia di non primissimo piano come la Sauber – anzi, nel 2024, prestazioni alla mano, quello che tra un paio di anni diventerà il team Audi è la peggior squadra del lotto.
Per la prima volta, quest’anno, il Mondiale è iniziato con tutti i roster identici a quelli della passata stagione. Il conservatorismo di certe scelte dei team a volte sorprende, come nel caso della Red Bull con Liam Lawson, ottimo nei GP disputati lo scorso anno con Alpha Tauri in sostituzione dell’infortunato Daniel Ricciardo, eppure riportato a inizio stagione nella condizione originaria di terzo pilota nel team satellite, ribattezzato VCARB, della casa dell’energy drink, proprio a favore di Ricciardo. Le cui prestazioni stanno dimostrando che l’usato funziona se ci si chiama Fernando Alonso, Lewis Hamilton, oppure anche Nico Hulkenberg, ma che non è un principio universale. Nel suo libro Surviving to Drive l’ex team manager della Haas Guenther Steiner ha raccontato come negli anni passati la politica della squadra fosse quella di puntare sui giovani solo quando era chiaro che la macchina per la stagione successiva sarebbe stata palesemente non competitiva, perché per i giovani si sarebbe comunque trattato di una utile esperienza, mentre per un pilota in fase più avanzata di carriera si sarebbe potuto rivelare un colpo letale. Così per la Haas “nata morta” del 2021 si puntò sulla coppia Mazepin-Schumacher jr., mentre con gli sviluppi delle stagioni successive si è optato per Magnussen e per l’esperienza di Hulkenberg, non rinnovando Schumi jr. A peggiorare ulteriormente la situazione vanno aggiunti sono due ulteriori fattori: il numero chiuso di team in F1, che significa meno sedili disponibili rispetto agli anni dove la partecipazione non era soggetta a limiti, e la quasi cancellazione dei test per i team, a eccezione di quelli per i rookie, che hanno drasticamente diminuito le occasioni per mettersi in mostra, con il simulatore quale unica chance residua.
Questo non significa affermare che non esiste meritocrazia in F1, ma solo che talvolta è applicata in maniera discutibile, soprattutto a livello di entrata e di ricambio. In questo contesto di oggettiva difficoltà generale, nella quale da noi va aggiunto anche il carico da novanta di una maggiore difficoltà di reperimento sponsor e fondi rispetto ad altri paesi, l’Italia s’è desta. Quasi improvvisamente, è tornata un’euforia nei confronti di alcuni giovani piloti che va oltre il canonico supporto di bandiera. Nomi quali Andrea Kimi Antonelli, Gabriele Minì e Leonardo Fornaroli stanno emergendo con prepotenza grazie a una serie di risultati di spessore e, nel caso dei primi due, l’inserimento nelle Academy giuste – quelle dei top team o, comunque di grande tradizione – che possono facilitare certi passaggi. Si veda proprio il caso di Antonelli, bolognese classe 2006 appartenente all’Academy della Mercedes, che nella stagione in corso è approdato in F2 direttamente dalla FRECA (Formula Regonal EU by Alpine), vinta lo scorso anno al primo colpo, saltando quindi una categoria, la F3. Valentin Khorounzhiy ha scritto su The Race che l’approdo di Antonelli nella seconda serie «è una bomba a livello giovanile come non si vedeva dai tempi di Lance Stroll, passato dalla F3 alla F1 in Williams, e del 16enne Max Verstappen messo su monoposto Toro Rosso». Un giudizio che, vista la fonte, non può certo essere tacciato di tifo o di partigianeria.
Ma se proprio bisogna giocare con i paragoni, il percorso di Antonelli finora è stato più simile a quello di Lando Norris, da fenomeno nei kart a due titoli stagionali in F.4 (Eurocup and Northern European Cup), così come l’italiano nel 2023 ha affiancato al già menzionato titolo FRECA quello nella Formula Regional Middle East (dopo aver conquistato l’anno precedente il titolo nella Formula 4 ADAC e nella Formula 4 italiana). L’attuale pilota McLaren, però non ha saltato la F3 (che oltretutto vinse), un passaggio invece compiuto da Antonelli sfruttando anche le novità regolamentari introdotte quest’anno in F2, con vetture concepite per essere il più vicino possibile alla “filosofia progettuale” delle F1, per un rimescolamento che ha diminuito il gap tra i rookie e i piloti più esperti. Rimane comunque un approccio dall’impatto notevole, se si pensa che nel 2023 una FRECA era in media più lenta di 12.5 secondi al giro (sulla base dei tempi di qualifica medi rilevati sui circuiti di Barcellona, Hungaroring, Red Bull Ring e Monza) rispetto a una F2, aveva 350 cavalli in meno (270 contro 620) e pesava 100 chilogrammi in meno (688 contro 788). «Abbiamo avuto fretta? No», è stato il commento di Gwen Lagrue, driver development advisor di Mercedes F1, l’uomo alla base della carriera di George Russell nonché lo “scout” di Antonelli, da lui visto in azione per la prima volta sui kart nel 2017. «La domanda corretta da fare è: lo stiamo preparando al meglio? Ecco, mi sento di rispondere che il passaggio dalla F.4 alla F3 per me non è quello giusto».
Lo scorso aprile Antonelli ha provato la Mercedes W12 al Red Bull Ring e la Mercedes W13 a Imola, e si è vociferato anche di una possibile deroga richiesta alla FIA per permettergli di sostituire Logan Sargeant su Williams prima del 26 agosto, giorno in cui diventerà maggiorenne – il limite dei 18 anni per poter correre in F1 è stato introdotto dopo il citato debutto di Verstappen in Toro Rosso. Speculazioni che, in un mercato piloti molto fluido che sta anticipando la tradizionale silly season di agosto, hanno ingigantito ulteriormente il già corposo hype che circonda il pilota. Forse troppo, visto che Antonelli non è ancora riuscito ad andare a podio nelle dieci gare fin qui disputate nel Mondiale. Ma i segnali positivi non mancano, dal sesto posto in classifica all’approccio serio e iper-professionale del ragazzo, fino a Oliver Bearman. Si, proprio il pilota inglese che ha debuttato quest’anno in F1 a Singapore al posto di Carlos Sainz facendo un’ottima figura. Suo compagno di team in Prema, già alla seconda stagione in F2, sia nelle qualifiche che in gara il pilota dell’Academy Ferrari viene battuto con buona continuità da Antonelli. «Il nostro ruolo», ha aggiunto Lagrue, «non è quello di creare un fan club, ma di costruire un progetto professionale e dirgli sempre la verità, qualunque essi sia». Qualcuno ha accusato Mercedes di aver creato troppa pressione sull’italiano, caricandolo di aspettative estreme. Ma va anche detto che un pilota con simili numeri l’hype finisce per generarlo da solo, indipendentemente da ciò che viene fatto dalla sua casa madre.

Una categoria sotto, in F3, l’Italia è sugli scudi con Minì e Fornaroli, dopo il GP di Montecarlo rispettivamente primo e terzo nella classifica piloti. Così come nelle prime due posizioni nella graduatoria costruttori ci sono la solita Prema, team di Minì, e la Trident, squadra più giovane (è stata fondata nel 2006) con sede nel milanese. Se il piacentino Fornaroli, classe 2004 alla sua seconda stagione in F3, non appartiene a nessun grande network automobilistico e rischia quindi di trovarsi di fronte a un percorso più tortuoso e difficile di quanto già non lo sia per tutti, Minì invece è inserito nel programma giovani talenti della Alpine e condivide con Charles Leclerc lo stesso manager, ossia Nicolas Todt. Classe 2005 originario di Marineo, paese a trenta chilometri da Palermo, la sua storia parte da direttrici opposte rispetto a quella di Antonelli. Se quest’ultimo è cresciuto in un ambiente “alla Verstappen”, con il padre Marco pilota automobilistico e proprietario del team AKM Motorsport, l’aggancio di Minì con i motori era solo l’officina del padre e la passione amatoriale delle famiglia. Come ha ricordato lui stesso: «Mio padre e mio nonno correvano negli slalom, nelle salite. Ma è iniziato tutto per gioco, in un parcheggio vuoto, su un kart a cui mio padre sistemò i pedali per permettermi di arrivarci. Non pensavo certo di fare il pilota. Non avevamo possibilità economiche per gareggiare in contesti importanti, ma ho partecipato alle prime gare cittadine e regionali, un passaggio importante perché sono stato notato da squadre siciliane e ho cominciato ad affacciarmi nel contesto nazionale».
Più giovane pilota a vincere il Campionato italiano di Formula 4, nel 2020 a 15 anni, Minì è entrato nell’Academy Alpine nel 2023, dopo una serie di stagioni di crescita costante. L’idea di pilota che si è costruito da solo rappresenta per lui un grande motivo di orgoglio: «Ho visto ragazzi senza problemi di budget correre solo per accontentare il padre, e quando succede che sei senza sbocchi capita che ti caschino le braccia. Nel mio caso ogni traguardo è stato sudato, ma questo oggi rappresenta una grandissima motivazione ad andare avanti». Domenica 26 maggio a Montecarlo ha ottenuto la pole position e vinto la gara, bissando la doppietta già ottenuta un anno fa nel Principato. Con la differenza che oggi guarda tutti dall’alto nella classifica della categoria. Difficile immaginare premesse migliori per il futuro dell’Italia e dei suoi piloti.