All’epoca nessuno poteva saperlo, ma nella puntata del Processo di Biscardi andata in onda il 18 giugno del 2002 si faceva l’Italia presente e futura. È appena finito l’ottavo di finale del Mondiale tra la Nazionale e la Corea del Sud, trauma che segnerà la psiche di più generazioni di tifosi e scolpirà nell’immaginario collettivo il volto strafottente di Byron Moreno, il villain più cattivo mai apparso nelle storie della Nazionale, e le forme ondulate della boccetta in cui Giovanni Trapattoni teneva l’acqua santa, la più efficace delle soluzioni tattiche utilizzate in quel Mondiale.
Il processo di Biscardi inizia pochissimi minuti dopo il golden goal segnato da Ahn Jung-hwan, dalle prime immagini dello studio si intuisce subito un’atmosfera letteralmente incandescente: tutti gli ospiti sono sia incazzatissimi che sudatissimi, forse perché hanno appena finito di imprecare per la sorte avversa della Nazionale, forse perché le luci nello studio sono di una tale intensità che viene il sospetto a occuparsene siano Duccio Patanè e Biascica di Boris: «Apri tutto». Il presente e il futuro dell’Italia, dicevamo: nel suo monologo-invettiva-requisitoria iniziale, Biscardi usa tutte le parole che poi diventeranno la lingua parlata degli anni a venire. Complotto e cospirazione, infamia e vergogna, onestà e dimissioni: chissà quanti dei populisti che governeranno l’Italia negli anni Duemila quella sera erano davanti alla tv a imparare la lezione, a carpire i segreti del capopopolo Biscardi.
Nonostante le luci accecanti sia dello studio di Roma che di quello di Milano – Il processo segue questo format: il casino che si crea nello studio di Roma è bello ma non è sufficiente, quindi il programma ha un distaccamento milanese con un conduttore aggiunto, collegamenti in ritardo di numerosi secondi e microfoni che emettono un fastidiosissimo riverbero – bastano i brevissimi primi piani che introducono gli ospiti presenti per capire che questa non è una puntata come le altre. A dare un titolo sarà Maurizio Mosca, che arriva in studio con un rilevante ritardo le cui ragioni non sono state mai chiarite: viene accolto con un’ovazione degna di quelle che i nordcoreani riservano a Kim Jong-un durante le sue visite nelle province. Il pubblico è in visibilio, i colleghi opinionisti si guardano, applaudono, ridono, le urla di Biscardi allo stesso tempo coprono e tengono assieme tutto. «Stasera non ci saranno le bombe di Mosca!», annuncia grave il conduttore: la situazione è troppo seria per badare alle cazzate, insomma. Mosca però non resiste e fa lo stesso da comic relief: mima il modo in cui Baggio avrebbe calciato le punizioni che altri hanno sbagliato, tracima nello spazio personale del malcapitato Malu Mpasinkatu, si alza in continuazione per andare a infastidire Elio Corno, dà del «vecchio gerarca fascista» a Vittorio Pozzo, commenta tutti i commenti altrui urlando acutissimi «CHI?! COSA?! QUANDO?!».
Riferendosi a Trapattoni, Mosca inizia a parlare di «sovraeccitamento emotivo», che in effetti è una definizione inventata da lui che descrive perfettamente lo spettacolo di cui diventa subito uno dei protagonisti. Negli studi sia di Roma che di Milano sono tutti incazzati neri, certo. Ma c’è di più: sono tutti ansiosissimi di dire la loro, nonostante dicano tutti ogni volta la stessa cosa per due ore consecutive: complotto e cospirazione, infamia e vergogna, onestà e dimissioni. Manca poco venga proposto il confino per Trapattoni e il plotone d’esecuzione per l’allora presidente della Figc Franco Carraro (a un certo punto qualcuno urla: «Ci manca Matarrese!», ma il pietoso cameraman evita di inquadrare questo qualcuno e di condannarlo così al pubblico ludibrio). Nel sovraeccitamento emotivo di cui parla la psicologo delle masse Mosca volano accuse di ogni tipo, dalla corruzione alla banda armata: viene da chiedersi come sia possibile che nessuno dei citati abbia sporto querela e come sia possibile che la procura competente non abbia proceduto al sequestro dell’emittente televisiva che tutto questo lo sta mandando in onda.
Carraro viene accusato di passare il suo tempo a giocare a golf nei campi di Roma invece che a lavorare in ufficio. Trapattoni ritratto come un vecchio bacucco buono solo per aiutare il parroco del paese a raccogliere le offerte durante la Messa della domenica. Moreno viene apostrofato “ecuadoregno” quando va bene, quando va male diventa “il sicario”, quando va malissimo “la carogna”. La partita viene descritta come un «porcile arbitrale» e tutta la dirigenza Fifa è accusata di essere «puzzolente». Joseph Blatter, allora presidente della Fifa, viene ritratto come un boss della criminalità organizzata. A un certo punto Michele Corti, emanazione biscardiana incaricata di seguire telefonate, fax e mail, annuncia l’arrivo di una mail da Corleone: «Biscardi salvaci dalla mafia della Fifa. Poi dicono a noi mafiosi». Indignato, Biscardi risponde: «Lasciamo stare la mafia!».
Questo è solo uno dei momenti in cui il mondo esterno aggrava una situazione che negli studi del Processo già non potrebbe essere più grave. La diretta è un andirivieni tra l’enorme scrivania di Biscardi – davvero immensa, ricorda quella alla quale Putin fa sedere i suoi ospiti in visita al Cremlino in occasioni diplomatiche – e la postazione old internet di Corti: ogni volta quest’ultimo aggiorna il contatore di quello che all’epoca era l’engagement, di quelle che al tempo erano le interazioni. Vengono lanciati sondaggi – fa più schifo il gioco di Trapattoni o l’arbitraggio di Moreno? – che con percentuali bulgare confermano le contumelie biscardiane. Si invitano gli spettatori a inviare fax e mail agli indirizzi della Fifa: Corti dice che sono arrivate più di 25 mila mail (dei fax nessuno tiene il conto, vai a sapere che è successo negli uffici della Fifa in quelle ore) però tutte all’indirizzo mail del Processo, e quindi lui si è preso la briga di girarle tutte a quello della Fifa con l’oggetto “Vergogna”.
Delle telefonate a un certo punto si perde traccia, sono già 70 mila quando viene introdotta una proposta di legge per costringere Pierluigi Collina ad abbandonare il Mondiale in segno di protesta e solidarietà con l’Italia offesa. Appena Biscardi finisce di formulare l’idea le telefonate sono già 25 mila, in onda non ne viene messa nemmeno una e quindi viene da chiedersi perché diavolo tutta questa gente insista a chiamare. Corti ci dice che tutti quelli che chiamano sono d’accordo. Ma con chi, però? Con Biscardi, ovviamente.
Solo una telefonata viene mandata in onda, ma non è una telefonata. È il presidente del Perugia Calcio, Luciano Gaucci, proprietario del cartellino di Ahn. Annuncia il licenziamento per giusta causa, Gaucci: non riscatterà Ahn «perché non si è comportato bene», ci perde tre miliardi di vecchie lire perché se lo riscattasse e decidesse di metterlo sul calciomercato la quotazione quella sarebbe. Un energizzato Biscardi ritrova le forze che due ore di diretta e urla avevano prosciugato: «Bravo!», urla a Gaucci prima di sbattergli il telefono in faccia perché siamo già alla prossima emergenza. Dopo due ore in cui non si è parlato praticamente di nulla – nessuno ha fatto un commento propriamente detto, nessuno ha parlato di calcio, nessuno ha commentato un’azione né una giocata, nessuno ha mostrato un’immagine di alcun tipo al di fuori di una supermoviola che «fa sentenza» anche se a un certo punto l’impianto elettrico dello studio tira un brutto scherzo, salta la corrente, lo schermo dedicato alla supermoviola si spegne ma tutti concordano nel dire «tanto lo sappiamo che è successo» – c’è da leggere una dichiarazione di Del Piero e poi, soprattutto, mandare il servizio in cui si racconta come la sconfitta della Nazionale è stata presa «in tutta Italia», dice Biscardi. Precisando poi che il servizio è stato girato tutto in piazza del Duomo a Milano, e che però piazza del Duomo a Milano «racconta tutta l’Italia».
È tutto qui
Sapendo come funziona oggi il commento calcistico, come se ne scrive sui social, come viene discusso su Twitch, come è raccontato dalle testate giornalistiche che ancora sopravvivono, l’influenza del Processo di Biscardi appare immensa. Vale per il calcio “quotidiano”, quello dei club. Vale ancora di più per quello “straordinario”, delle Nazionali e dei tornei che tengono assieme Paesi, continenti, mondi. Il sovraeccitamento emotivo di cui vagheggiava Mosca – che, vale la pena sottolinearlo, passa tutto il tempo in cui non è inquadrato dalle telecamere del Processo a ridacchiare sotto i baffi, perfettamente consapevole della parte in commedia dalla quale per un attimo, per rifiatare, è costretto a prendersi una pausa, a mettere il giusto distacco ironico tra sé e sé stesso – non sarebbe perfetto per descrivere anche l’adesso, per raccontare il modo compulsivo e sbavante in cui commentiamo ogni cosa che nel calcio succede, nella fretta e nella necessità spesso perdendo qualsiasi nesso causale tra ciò che succede e ciò che si commenta? Per anni ho pensato che il Processo di Biscardi fosse la Fossa delle Marianne nel mare del discorso calcistico (faccio mea culpa: tra gli spettatori di quella puntata post Italia vs Corea del Sud c’ero anche io, ragazzino, serissimo, incazzatissimo, tristissimo).
Oggi, dopo aver passato tra Twitter Calcio e Bobotv più anni di quelli che ho passato a seguire il Processo, provo una grandissima nostalgia per quella versione di me che pensava che le cose non potessero andare peggio di come stessero andando in quel momento. Mio malgrado, ho poi scoperto che essere eliminati dalla Coppa del Mondo agli ottavi di finale è meglio che essere eliminati nella fase a gironi (due volte), è meglio che non andarci proprio (due volte) al Mondiale. Soprattutto, ho poi scoperto che il commento del Processo era meglio di quello di adesso perché aveva il pregio di finire, a un certo punto. Dopo due ore di paura e delirio, Biscardi infatti annunciava la fine della puntata e salutava il pubblico fino al lunedì successivo. Certo, per il Mondiale del 2002, dopo l’eliminazione dell’Italia, fece un’eccezione: alla fine di quell’episodio annunciò che sarebbe tornato «domani e pure dopodomani» per approfondire ancora, commentare meglio «il complotto».