Cos’è questa storia del monossido di carbonio nel ciclismo

Tutto è partito da un'inchiesta del sito anglosassone Escape Collective: non è considerato doping, ma potrebbe essere dannoso per la salute.

La settimana scorsa, nel bel mezzo del Tour de France 2024 che — salvo colpi di scena — domenica 21 luglio a Nizza incoronerà lo sloveno Tadej Pogacar come primo ciclista a realizzare la doppietta Giro d’Italia-Tour dai tempi di Marco Pantani (1998), il sito anglosassone specializzato nel ciclismo Escape Collective ha pubblicato una lunga inchiesta firmata da cinque giornalisti secondo cui «diversi team del Tour de France stanno utilizzando la controversa e potenzialmente pericolosa pratica di inalare il gas mortale monossido di carbonio per ottimizzare l’allenamento in alta quota dei propri atleti».

Come scrive Escape Collective, almeno tre squadre, tra cui l’UAE Team Emirates di Tadej Pogacar, la Visma-Lease a Bike del secondo in classifica Jonas Vingegaard (vincitore degli ultimi due Tour) e la Israel-Premier Tech, hanno accesso a un costoso dispositivo chiamato “rebreather di monossido di carbonio” che permette il dosaggio preciso del gas nei polmoni. Sebbene si tratti di una tecnica introdotta di recente nel mondo del ciclismo, il “rebreather di monossido di carbonio” non è una novità: è noto da decenni e la tecnica viene utilizzata in ambito medico e di ricerca scientifica. Nello sport ai massimi livelli, questo dispositivo ha due usi potenziali: il primo è uno strumento di misurazione che aiuta le squadre a tracciare in maniera rapida e accurata i valori del sangue per ottimizzare i benefici fisiologici dell’allenamento in altura, il secondo invece è un approccio più aggressivo che consiste nell’inalazione di monossido di carbonio allo scopo esplicito di migliorare le prestazioni. Alcune recenti ricerce scientifiche, infatti, suggeriscono che l’inalazione di monossido di carbonio può avere un impatto potente sul cosiddetto VO2max, cioè sul massimo volume di ossigeno consumato per minuto.

Escape Collective chiarisce anche che la tecnica al momento non è vietata dalla Wada, l’Agenzia mondiale antidoping, e che non ci sono prove concrete che qualche squadra del Tour del France stia attualmente utilizzando l’inalazione di monossido di carbonio — quindi la pratica più aggressiva — per migliorare le prestazioni dei propri ciclisti. Tuttavia, scrive sempre il sito specializzato, diverse fonti indicherebbero che questa ipotesi «potrebbe essere imminente o che già accadrebbe nel ciclismo o in altri sport».

L’UAE Team Emirates, la Visma-Lease a Bike la Israel-Premier Tech hanno infatti confermato di avere accesso a un “rebreather di monossido di carbonio” e di utilizzare la tecnica per scopi di misurazione, cioè per il primo dei due usi. Lo ha detto anche Jonas Vingegaard, secondo cui «tutto viene fatto seguendo un protocollo molto ben definito», mentre la maglia gialla Tadej Pogacar, che inizialmente aveva detto di non saperne nulla, dopo la tappa di ieri ha ammesso: «L’ho usato in una sola occasione e non ho nemmeno completato il test».

Secondo vari studi citati da Escape Collective, la differenza fondamentale tra l’utilizzo del “rebreather di monossido di carbonio” nel primo o nel secondo caso è «fondamentalmente una questione di frequenza: la misurazione viene condotta raramente, di solito prima e dopo un raduno in quota, mentre l’inalazione per i guadagni di prestazione richiederebbe dosi molto più frequenti, possibilmente più volte al giorno. E in quanto tale, comporta un rischio aggiuntivo». Come ha scritto Repubblica, il monossido di carbonio è già fisiologicamente nel nostro corpo (a una percentuale dell’1%), ma uccide se inalato per lungo tempo e in grandi quantità: una concentrazione superiore al 25% è letale. Secondo alcuni esperti contattati dall’inchiesta, oltre al rischio di morte l’avvelenamento acuto da monossido di carbonio può causare problemi di salute duraturi, tra cui danni neurologici ritardati.

La Wada non ha risposto alle domande poste da Escape Collective, mentre l’Uci (l’Unione ciclistica internazionale) ha risposto con una dichiarazione definita (dal sito specializzato) «in gran parte banale» secondo cui è la Wada l’ente responsabile della creazione della “Lista delle sostanze proibite” e che «l’Uci continua a collaborare con la Wada e l’International Testing Agency per garantire che i nostri approcci normativi siano sincronizzati, dando priorità all’integrità delle competizioni e garantendo al contempo la sicurezza degli atleti».