Il 20 maggio del 1991, al Vèlodrome di Marsiglia, si gioca il ritorno del quarto di finale di Coppa dei Campioni. In campo ci sono l’Olympique e il Milan. A San Siro è finita 1-1 e al 75esimo minuto il Milan – vincitore della coppa nella stagione 1988/89, e di nuovo in quella 1989/90 – è sotto 1-0, per via di un gol di Chris Waddle, e quindi è fuori dalla massima competizione europea. Quando mancano ormai pochissimi minuti al triplice fischio, l’arbitro Bo Karlsson interrompe la partita: si sono rotti dei fari e uno dei riflettori dello stadio non illumina più a dovere, pausa di venti minuti in attesa di risolvere il problema. L’amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, non si fida degli elettricisti marsigliesi e decide quindi di ritirare la squadra: per farlo, scende in campo vestito come un detective di film noir e intima ai suoi giocatori di tornare negli spogliatoi. Il Milan non torna in campo, la partita rimane monca.
«Tutto nasce da Belgrado», racconta Galliani, «noi in quell’occasione eravamo fuori dalla coppa e per la prima volta da 40 anni a quella parte fu sospesa una partita per nebbia a Belgrado. La rigiochiamo il giorno dopo, la vinciamo e di lì conquistiamo la Coppa dei Campioni 1989, la Supercoppa Europea e la Coppa Intercontinentale, e lo stesso facciamo nell’annata successiva». Avanti veloce fino al 20 maggio 1991: «Perdevamo 1-0, come succedeva a Belgrado. Giochiamo negli ultimi minuti. Io dico: lo stesso Dio di Belgrado non può far venire la nebbia nel mese di marzo sul mare, così ha deciso di esprimersi facendo spegnere tutta l’illuminazione. E si spengono le luci. L’arbitro aveva detto che si poteva rigiocare, perché questo era irregolare. Così decidemmo di ritirare la squadra. Siamo andati vicinissimi a rigiocare la partita il giorno dopo, puntando poi a vincere la coppa. Ma non andò così». Il Milan quella partita la perderà 3-0 a tavolino, l’UEFA infliggerà ai rossoneri una squalifica di un anno da tutte le competizioni europee. Gianni Mura commenterà l’accaduto definendo la scelta di Galliani una «sceneggiata» paragonabile solo a quella dell’imbarazzante emiro del Kuwait ai mondiali dell’82.
In quella serata marsigliese, stava tutta la filosofia di Adriano Galliani: se ha funzionato una volta allora può funzionare ancora, se è già successo in passato vedrai che succederà di nuovo in futuro. Quello che per tutti fu “il culo di Sacchi” per lui era fede in un dio di nebbia ed elettricità. Alla storia che si racconta una prima volta con la voce della farsa e poi una seconda con quella della tragedia, Galliani ha sempre preferito quei certi amori che non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano: Antonello Venditti meglio di Karl Marx. Il calcio vive in cicli, è governato da una volontà che fa sì che quello che deve succedere, succeda, se non alla prima occasione allora alla seconda, alla terza: «Torno a dire che il destino è stato incredibile: ci ha dato la possibilità di vincere contro quelle squadre che precedentemente ci avevano battuto. Adesso abbiamo pareggiato i conti con Liverpool e Boca», dirà Galliani dopo la vittoria della Coppa del Mondo per Club nel 2007. Per arrivare a quel trionfo, il Milan batté proprio Liverpool e Boca nelle due finali decisive, le due squadre che nel 2005 e nel 2003, rispettivamente, tolsero ai rossoneri la Champions League e la Coppa Intercontinentale, sconfiggendoli in due finali piuttosto rocambolesche.
La convinzione proto-sovranista che il Milan dovesse andare ai milanisti poggiava su questa certezza che nel passato c’è tutto quello che c’è da sapere, che sapere significa ricordare. Se un giocatore è stato grande (o anche solo discreto, anche solo decente, anche solo professionista) in passato, lo sarà nel presente e nel futuro, ancora o di nuovo: da qui il mercato di giocatori già fatti (i campioni) finché i soldi ci sono stati e di giocatori già finiti (i parametri zero) dopo che il lodo Mondadori pose fine alla Guerra di Segrate e costrinse Silvio Berlusconi alla spending review delle attività di Fininvest. I giovani? I giovani crescono all’Atalanta e si rubano alla Juventus, come fu per Donadoni.
Liberarsi di Terim e scommettere su Ancelotti è l’unica scelta universalmente riconosciuta al solo Adriano Galliani in trent’anni di Milan, oltre a quella di quella sera a Marsiglia. Dice molto della storia e del ruolo di Galliani la differenza tra lo spazio che ha occupato (e occupa ancora) nell’immaginario collettivo e il potere reale esercitato da amministratore delegato. La legittimità di ogni decisione presa negli anni di via Turati (Casa Milan all’epoca era domiciliata lì, erano gli anni in cui le squadre erano inquiline e non proprietarie dei loro luoghi) emanava ovviamente da Berlusconi: «Il presidente non si discute, le sue parole per me sono sacre da prima ancora che prendesse il Milan», diceva Galliani spiegando i limiti del suo mandato. Anche quando decise di sostituire Terim con Ancelotti, la prima preoccupazione dell’ad fu quella di legittimare la scelta tramite la delega presidenziale: «Berlusconi ha dato il via libera a una scelta da me caldeggiata». Per Berlusconi, Galliani è stato nel calcio quello che Confalonieri è stato in Mediaset, che Gianni Letta è stato in politica: «Uno dei massimi manager calcistici a livello mondiale a cui mi lega un’amicizia trentennale e un’incondizionata stima professionale», una stima che il Cavaliere metterà alla prova della riconoscenza per Paolo Maldini e dell’amore per la figlia Barbara, un’amicizia che garantirà a Galliani un posto sempre al sole, uno spazio sempre suo nel concilio ristretto del sovrano.
Negli anni della sua presidenza, Berlusconi è sempre stato la fonte suprema del diritto rossonero, ma le competenze legislative erano divise tra più autorità. E quella di Galliani non era nemmeno la preponderante: Paolo Berlusconi e Giancarlo Foscale all’inizio erano amministratori delegati tanto quanto lui, Silvano Ramaccioni e soprattuto Ariedo Braida si sono occupati delle cose di campo molto più di lui (anche e soprattutto perché due anni da vicepresidente del Monza non potevano certo essere considerati mandato forte, esperienza qualificante). Il Milan degli olandesi lo fece Braida, quello degli Invincibili pure, quello dei Meravigliosi anche. L’ultimo Diavolo rilevante, quello di Thiago Silva, Pato, Ibrahimovic, lo costruì Leonardo, messo a fare il presidente della Fondazione Milan solo perché Berlusconi non avrebbe mai fatto all’amico di una vita lo sgarbo, la scortesia della sostituzione – pur addolcita da una buonuscita che sarebbe stata, e alla fine è stata, più che proporzionale ad anzianità e produttività. Galliani soffrirà sempre di questa redistribuzione dei meriti e privatizzazione delle colpe: i grandi Milan erano merito di tutti, persino delle ossessioni di Berlusconi, dei VHS che gli capitavano sulla scrivania e lo portavano a litigare con Sacchi per via di Claudio Borghi; i Milan minori sono stati sempre colpa di un mercato ridotto, del taglio della spesa, della riduzione del monte ingaggi, del risanamento del bilancio societario, dei tre giorni del condor che portano in rossonero sempre e solo gli avanzi dei banchetti altrui: colpa sua, insomma. Forse è il prezzo pagare quando tu sei quello che resta dopo che tutti gli altri sono andati via: finita la festa, qualcuno deve pur preoccuparsi di rimettere ordine in casa. Forse è l’altra faccia della medaglia della fedeltà.
Il nome di Galliani uscì dall’indifferenza che in passato si riservava ai quadri dirigenziali calcistici proprio il 20 maggio del 1991: fino a quel momento si era occupato del retroscena milanista, di rimettere ordine nella baraonda lasciata da Giussy Farina nel dietro le quinte rossonero. «Una delle prime cose che ho fatto nel calcio non è stato prendere Gullit e Van Basten, ma andare a pagare il conto dal salumiere e dal farmacista, panettiere e altri di Solbiate Arno che non prendevano soldi da diversi mesi». Berlusconi voleva fare del Milan un prodotto da vendere, da offrire sul mercato, risolvere una profondissima crisi aziendale impiegando l’esperienza nella televisione commerciale: «Migliorare ed esaltare l’immagine del Milan», disse l’allora neo-presidente. La sua esperienza è anche quella di Galliani, uomo al fianco di Berlusconi sin dall’epoca pionieristica di quello che fu definito il Far West delle televisioni private. D’altronde, la chiesa di Arcore fu costruita sulla pietra fornita da Adriano: Telemilano 58 non sarebbe mai diventata Canale 5 senza i ripetitori della Elettronica Industriale, azienda di Lissone (MB), specializzazione antenne per la tv, comprata nel 1975 da un Galliani lanciato nell’avventura imprenditoriale dopo otto anni da statale presso il comune di Monza. Nei momenti peggiori della sua vita milanista, Galliani sarà spesso ridotto alle origini e ragioni del suo rapporto con Berlusconi: il geometra diventato antennista, fortunato a incontrare la persona giusta al momento giusto. Forse è per questa origine minore che Galliani non si premurerà mai di correggere i pomposi “dottore” riservatigli da giornalisti e calciatori: il geometra diventato manager, l’imprenditore che aveva comprato a poco dall’ingegner Ottorino Barbuti e che aveva venduto a tanto al cavalier Silvio Berlusconi, l’uomo incaricato di trasformare il Milan in una società come Warner Bros o Walt Disney non poteva certo farsi ridurre dai detrattori ai mancati titoli accademici o alla scarsa familiarità con il pallone.
Galliani è stato l’uomo-immagine del Milan, ha riassunto la dirigenza rossonera nei suoi tic, nei suoi tratti, nelle sue abitudini. Quando il Milan segnava a San Siro la telecamera andava subito su di lui, già scattato in piedi, col corpo scosso dai tremiti dell’esultanza, il volto trasfigurato dalla gioia in un ritratto un po’ Urlo di Munch e un po’ Profit I di Basquiat, l’esagerazione necessaria a compensare quei natali monzesi e quel desiderio di non essere milanesi che lo aveva portato a tifare la Juve («Mai l’Inter», però, ci terrà sempre a precisare). Quando il Milan prendeva il giocatore forte, si sapeva che la sera stessa al ristorante da Giannino ci sarebbe stato un tavolo prenotato per A.G.. Quando il Milan non era la maglia rossonera dei suoi giocatori era la cravatta gialla del suo amministratore delegato. Quando il Milan non era il capitale strettamente detto dell’uomo più ricco d’Italia, era il capitalismo di relazione del suo amministratore delegato: la confidenza con Ernesto Bronzetti e Mino Raiola, le amicizie con Florentino Pérez ed Enrico Preziosi, le comproprietà e le plusvalenze, gli scambi e i prestiti, un metodo riassunto in una delle dichiarazioni più canzonate nella storia del pallone italiano: «Io sono andato a Madrid quest’estate per prendere Kakà senza un appuntamento e mi hanno aperto gli uffici del Real. Quando sono andato, nell’agosto 2010, a prendere Ibrahimovic a Barcellona, il presidente Rosell è tornato apposta dalle ferie che aveva programmato con la sua famiglia». Quando il Milan non era Berlusconi in persona, era Berlusconi per l’interposta persona di Galliani: il conflitto di interessi, le attenzioni della giustizia sportiva e ordinaria, i processi, le assoluzioni, Calciopoli, la squalifica, la storia di Galliani nella politica del calcio è una copia carbone di quella del Berlusconi presidente sì, ma del Consiglio dei Ministri, un omaggio volente o nolente a una figura che è stata mentore e paragone, limite e aspirazione.