Florentino Pérez aveva legato la sua prima candidatura alla presidenza del Real Madrid all’acquisto di Luís Figo. Era l’estate del 2000 e voleva piazzare il più grande colpo di inizio millennio: un giocatore ancora giovane e già eccezionale, un’ala che faceva innamorare il pubblico e impazzire i terzini avversari un dribbling dopo l’altro. Pérez aveva persuaso il consiglio di amministrazione dicendo che avrebbe donato più di 2 milioni di euro al club se non fosse riuscito a comprare il portoghese. La proposta era allettante, un’operazione del genere avrebbe stravolto l’equilibrio del mercato europeo. Un sogno dorato aveva convinto i soci della Casa Blanca a puntare su un imprenditore distante dal mondo del calcio e anche un po’ sbruffone. C’era solo un grande interrogativo in tutta questa faccenda elettorale: Figo giocava per il Barcellona. Pérez aveva segretamente convinto il calciatore a firmare. Lo aveva fatto con l’arte della persuasione che appartiene solo a certi businessman. Gli aveva proposto un accordo trasparente, con un pre-contratto: se Pérez avesse perso le elezioni, lo scenario più probabile secondo i giornali, Figo avrebbe incassato 2 milioni e sarebbe rimasto al Barcellona; se però avesse vinto le elezioni, il giocatore avrebbe firmato per il Real Madrid, oppure avrebbe dovuto pagare una penale stratosferica. Da lì in poi è andato tutto come previsto da Florentino. Elezioni vinte, Figo a Madrid, il primo capitolo di una storia incredibile. «A Luís ricordo sempre che con lui è iniziato tutto», dice Pérez in persona nel documentario Netflix che racconta il trasferimento.
Ventiquattro anni fa la volontà di potenza di un self-made man dell’edilizia aveva portato il calcio in una nuova era, almeno per quel che riguarda un certo modo di fare mercato, muovere giocatori e immaginare i club come imperi globali. Figo è la prima gemma della formazione più glamour, riconoscibile e assurda del mondo. Ogni anno una nuova star veniva aggiunta alla rosa, da Zidane a Ronaldo, fino a Beckahm e Owen. Era la prima versione dei Galácticos, una squadra di stelle paragonabile per talento al Brasile del ’70 ma costruita a suon di miliardi. I grandi campioni dovevano far innamorare il pubblico, vendere abbonamenti e magliette, infatti coprivano i ruoli dalla trequarti in su. A loro venivano affiancati i giovani del Real Madrid Castilla per riempire gli slot della difesa, come Francisco Pavón, erede dei gregari meno acclamati del Grande Real. Solo che la politica poi rinominata “Zidanes y Pavones” non avrebbe ottenuto quanto sperato. Quel Real Madrid era una squadra sbilanciata, incapace di un approccio olistico e di qualunque visione d’insieme. Con Vicente del Bosque in panchina aveva vinto una Champions nel 2002 e ottenuto altri successi qui e lì, ma non il dominio sul calcio europeo e spagnolo che ci si attendeva.
Dopo le dimissioni improvvise nel 2006, Florentino è tornato alla guida del Madrid nel 2009, sempre alla sua maniera, sognando un Real dei Galácticos 2.0, alla ricerca della decima Champions League. Cristiano Ronaldo e Kakà, Benzema e Xabi Alonso, poi Özil, Di Maria, Khedira. E forse anche questo secondo ciclo sarebbe finito con più dolori che gioie se nel 2013 non fosse arrivato Carlo Ancelotti, il leader calmo capace di inghiottire le pressioni dell’ambiente e risolvere una volta per tutte l’ossessione della Décima. Certo, non senza acquisti scintillanti. Quelli non sono mai mancati. Gareth Bale e Isco su tutti, affiancati dai canterani Morata, Nacho, Carvajal, Lucas Vazquez e Jesé.
Le vittorie hanno portato al Madrid una tranquillità inedita, che non spegne la fame ma aiuta a ragionare. Così da ultimo decennio a Valdebebas tira un’aria diversa. Una sessione di mercato del Real Madrid non è una campagna acquisti per completare l’album delle figurine – impossibile se la concorrenza è quella della Premier League e di altri club governati da monarchie mediorientali – ma è una gara per aggiudicarsi i migliori giovani del pianeta, da introdurre in squadra con dosaggio alchemico. Il grande protagonista è Juni Calafat, l’eminenza grigia del mercato madridista. Il brasiliano ha scalato le volatili gerarchie interne del club partendo dal ruolo di osservatore. Oggi nell’organigramma societario è dietro solo al direttore generale José Ángel Sánchez e all’unico vero jefe, Don Florentino.
Adesso il Madrid cerca nuovi fenomeni in tutti i mercati, pescando in un range d’età molto basso. Bellingham è arrivato in Spagna a 20 anni, come Camavinga; Eder Militao a 21; Aurelién Tchouameni a 22. C’è un’attenzione unica per i campioni del futuro, anche in campionati relativamente periferici. Vinícius Jr., Rodrygo, Valverde, Arda Güler, Endrick, sono tutti arrivati al Bernabéu appena maggiorenni, e sono diventati protagonisti – o lo diventeranno – gradualmente, senza frenesie o isterismi. Il Real Madrid da qualche anno ha capito che il talento, anche quello più puro e raro, si può allevare in casa. Non c’è bisogno di pagare cifre fuori mercato e rompere nuovi record ogni anno per costruire la squadra. Secondo i dati di Football Benchmark, il 55% dei soldi spesi dal Madrid negli ultimi sei anni è andato in acquisti di giocatori under 21, circa 455 milioni. Queste spese hanno accompagnato altri investimenti virtuosi che hanno permesso al club di superare per primo il muro del miliardo di euro di entrate in una singola stagione. Tra questi ci sono il rinnovamento del Santiago Bernabéu, nuove sponsorizzazioni multimilionarie, maglie in collaborazione con grandi maison della moda e altri progetti extracampo.
Mercoledì sera, nella Supercoppa Uefa contro l’Atalanta, esordirà Kylian Mbappé. Il francese è un costante candidato al Pallone d’Oro, uno dei volti più riconoscibili del calcio mondiale, uno dei pochi che possono sognare di ripetere i numeri di Cristiano Ronaldo e Leo Messi. È un campione già fatto e finito, a dicembre compirà 26 anni e ha esigenze di personal branding un po’ spigolose. Per questo il suo arrivo sembra in controtendenza rispetto al passato, un contrappeso all’equilibrio placido costruito in questi anni. Sembra quasi di rivedere gli stessi vizi della prima versione dei Galácticos, quelli bellissimi ma poco vincenti.
C’è un meme che circola molto sui social e mostra due foto: una del primo giugno, con Nacho che alza la Champions a Wembley, una del giorno successivo, con l’atteso “Here we go per” Mbappé in blanco. È la fame di un club per cui nulla è mai abbastanza e di più è sempre meglio. Ma per quanto necessario in una rosa che non ha attaccanti di ruolo, il francese arriva in una squadra campione d’Europa in carica e già zeppa di talento offensivo da esplorare. In questo, l’arrivo di Mbappé ricorda la vernice dorata sulla Bentley a cui veniva tolto il motore, quella di cui parlava Zidane al momento dell’acquisto di Beckham e della cessione di Makélélé (era il 2003).
È passato quasi un quarto di secolo dall’acquisto di Figo e l’idea di dominio sul calcio europeo del Real Madrid è sempre lì. Sono cambiati i modi, aggiornati per stare nella contemporaneità, ma il resto c’è. A Florentino viene riconosciuta una perseveranza diabolica, quell’afflato di grandeur un po’ megalomane che lo hanno spinto a fare di tutto, perfino a cambiare strategia, pur di portare la sua squadra sul tetto del mondo. Ma certi vizi non muoiono mai, possono tornare a tormentare anche un sovrano illuminato e scafato come un fantasma dei Natali passati.
Anche questa versione 2024/25 del Real Madrid sembra sbilanciata in avanti. La scorsa stagione Ancelotti ha dovuto spesso improvvisare la difesa a causa di troppi infortuni lunghi e gravi – i legamenti crociati rotti di Courtois, Militao e Alaba – che potrebbero avere ripercussioni anche quest’anno, e la partenza di Nacho non aiuta. In più, anche i terzini titolari, Carvajal e Mendy, sono giocatori injury prone che rischiano di non ripetere l’ultima straordinaria stagione. E in qualche modo andrà sostituita anche la sapienza geometrica di Toni Kroos, in un centrocampo in cui il talento non manca ma che non ha le carte per replicare il genio del tedesco.
Forse il mercato del Real Madrid non è ancora finito, ma al momento sembra che i fuochi d’artificio per Mbappé abbiano nascosto un po’ di polvere sotto al tappeto. Proprio come accadeva vent’anni fa. Perché se un giocatore eccezionale è sul mercato e vuole giocare a Madrid allora vince almeno un giro sulla giostra, il resto viene dopo. I nuovi Galácticos sembrano di nuovo una somma algebrica di talenti, più che negli ultimi anni. Con tutte le incognite che questo comporta. Poi, certo, è ancora la rosa più forte di tutte, con un’età media piuttosto bassa e una voglia di vittorie insaziabile. Per tutti gli altri, in Spagna e in Europa, sarà un problema ancora per molti anni.