Dopo una finale come quella di Wembley, dopo una partita come quella vinta per 2-0 contro il Borussia Dortmund, è fin troppo facile inciampare nella celebrazione retorica del Real Madrid. È fin troppo facile servirsi di termini ineffabili come mistica, come esperienza, oppure formule più articolate – ma altrettanto evanescenti – come abitudine a giocare certe partite. Certo, per carità: le occasioni costruite e fallite dal BVB all’apice di un primo tempo tatticamente dominato dalla squadra di Terzic, il modo in cui sono arrivati il gol di Carvajal e quello di Vinícius, la sicurezza con cui Ancelotti e i suoi giocatori hanno gestito tutti i momenti della finale, ecco, tutte queste cose potrebbero essere ricondotte a un fantomatico dna da Champions del Madrid, a quel cocktail di maturità e fortuna e consapevolezza e malizia che può appartenere soltanto a chi sa come si vincono certe partite, certe competizioni. Il problema, però, è che ridurre tutto alla mistica Real significa essere miopi, se non addirittura ciechi. Oppure, peggio ancora, superficiali.
L’esperienza, la forza, la consapevolezza e la maturità, e forse sarebbe giusto aggiungerci anche la fortuna, sono cose che vanno costruite. E poi vanno allenate, e poi vanno alimentate in modo che non stingano, che non si spengano. Il Real Madrid lo ha fatto e lo fa benissimo, anzi lo fa meglio di qualsiasi altro club al mondo. Il punto è che non lo fa da sempre: il progetto perfetto che ha determinato questo lunghissimo ciclo vincente è nato poco più di dieci anni fa, prima il Madrid era un’altra cosa. E basta consultare l’albo d’oro della Champions per rendersene conto: tra il 2003 e il 2013, il Real non vince e non arriva mai in finale; tra il 2004 e il 2010, inoltre, i blancos non vanno mai oltre gli ottavi. Insomma, per dirla brutalmente: se fosse una questione di mistica, di dna da Champions, anche Francisco Pavón, Alvaro Mejía, Thomas Gravesen, Julio Baptista e Royston Drenthe avrebbero vinto sei Champions League. E invece questo record incredibile l’hanno raggiunto Nacho, Carvajal e Modric – poi ci sarebbe anche Kroos, che però ne ha vinte “solo” cinque col Real, la sesta è quella sollevata col Bayern nel 2013.
In un articolo pubblicato diversi anni fa dal magazine spagnolo Panenka, Jorge Bustos leggeva e interpretava così la grandezza del Real Madrid: «Io sospetto che il successo del Real sia dovuto alla sua totale modernità. Non ha mai fatto concessioni all’identità: che fosse etnica, sociologica, ideologica. A Madrid si vince noncurante del deterioramento del tempo: il Real se ne serve per reincarnazioni vicine dell’insensato». La chiave è esattamente questa: negli ultimi anni, Florentino Pérez ha saputo mettere insieme un sistema calcistico in grado di aggiornare ogni record conosciuto. L’ha fatto assemblandolo pezzo dopo pezzo, senza farsi ingabbiare da nessun tipo di limite autoimposto – geografico, emotivo, tattico, finanche etico. L’ha fatto a partire da un’enorme disponibilità finanziaria, ci mancherebbe, ma i soldi bisogna anche saperli incassare, investire, congelare. Tanto per fare un po’ di esempi sparsi e solo apparentemente sconnessi: Pérez, insieme al suo management, ha individuato il momento giusto per separarsi da Cristiano Ronaldo, Sergio Ramos, Benzema e adesso toccherà a Toni Kroos; si è letteralmente inventato Zidane come allenatore e ha ripescato Ancelotti dopo le esperienze surreali con Napoli ed Everton; ha largamente anticipato – ricordate quanti anni avevano Odegaard, Vinícius e Rodrygo quando sono arrivati a Madrid? – una tendenza di mercato ormai consolidata, quella per cui i top club devono prendere i migliori talenti quando sono ancora dei teenager.
Proprio quest’ultimo aspetto – quello dei giovani – ha avuto un peso enorme, nell’economia della Champions League 23/24. Nella finale di Londra, Ancelotti ha schierato da titolari un giocatore classe 2000 (Vinícius Júnior), un classe 2001 (Rodrygo) e un classe 2002 (Camavinga) che hanno già giocato più di 150 partite insieme con la maglia del Real. E poi c’era anche un classe 2003, Jude Bellingham, che però è arrivato a Madrid soltanto un anno fa. Rileggendo i nomi che abbiamo fatto, è chiaro che si tratti di talenti formidabili e costosissimi. Ma è vero pure che il tempo passato insieme e tutte queste gare giocate ai massimi livelli devono aver creato dei legami, tra questi ragazzi. Che stanno bene insieme, si vede chiaramente, che hanno poco più di vent’anni eppure giocano già come dei veterani. Ecco, tutto questo non c’entra niente con la mistica. Tutto questo è una questione di idee, è il frutto di un lavoro svolto con coerenza e competenza.
Tranquilli, adesso parliamo anche della partita
Anche quello che succede in campo va visto e analizzato in questo modo: sì, è vero, Adeyemi si è divorato un gol a tu per tu con Courtois e forse nel primo tempo il BVB avrebbe meritato di passare in vantaggio. Ma poi nella ripresa i giocatori di Terzic hanno dovuto abbassare un po’ la loro intensità, e nel frattempo Ancelotti aveva già rimesso a posto la sua squadra, Kroos e Camavinga avevano già preso il controllo del centrocampo, ed è in questo scenario che è arrivato il gol di Carvajal. Appunto, il gol di Carvajal: neanche il colpo di testa di un terzino alto 173 centimetri c’entra granché con la mistica, visto che Ancelotti e il suo staff hanno lavorato tutto l’anno su quel tipo di situazione, e infatti Carvajal ha segnato un gol praticamente identico contro il Siviglia e ne ha sfiorati diversi.
Tutti i cerchi si chiudono proprio nel segno di Ancelotti, un tecnico capace di reinventare costantemente la propria identità, di lavorare sui calciatori come fa uno scultore con il cesello, di inventarsi sempre nuove diavolerie per inclinare l’andamento delle partite verso di sé, anche quelle che sembrano perdute, anche quelle in cui fa fatica a dominare il gioco. Ecco, questo tipo di approccio è assolutamente perfetto per il Real Madrid di oggi, una squadra dal valore assoluto irraggiungibile – solo il Manchester City può essere accostato ai blancos, in questo senso – e che viene assemblata prendendo semplicemente il meglio che c’è, senza autoimporsi alcun limite – geografico, emotivo, tattico, finanche etico. E infatti il Madrid sta per annunciare l’arrivo di Mbappé e da tempo ha messo le mani su Endrick, ovvero i due attaccanti più forti delle rispettive generazioni.
Proprio questi due colpi già messi a segno confermano tutto ciò che è stato detto finora: il Real Madrid è campione d’Europa non perché si chiama così, ma perché si è inventato un modello vincente, l’ha applicato e sta continuando ad applicarlo. Senza fare compromessi, senza pietà, perché in fondo lo sport è questa roba qui. In fondo, a pensarci bene, la questione è davvero semplice: comprare Mbappé e metterlo accanto a Bellingham e Vinícius e a Valverde e a tutti gli altri significa creare le condizioni perché gli episodi delle partite che verranno siano ancora favorevoli al Madrid. Significa costruirsela, la mistica, mentre gli altri possono solo sperare che non si manifesti, anche se è sempre più difficile.