Jannik Sinner sta uccidendo il tennis

Gli US Open 2024 sono stati tutt'altro che memorabili, per tanti motivi. Ma li ha vinti il giocatore più forte, su questo non c'è dubbio.

La finale degli US Open 2024 non è difficile da raccontare. C’erano in campo due bei ragazzi, uno bruno e uno rosso. Giocavano più o meno allo stesso modo, a parte il fatto che il rosso era di varie spanne superiore all’altro in ogni dipartimento, con la possibile eccezione del servizio. Seguendo – quasi certamente senza conoscerlo – un antico precetto del leggendario Bill Tilden, il rosso ha scelto di appoggiarsi tranquillamente sul colpo migliore dell’avversario, quindi, pur avendo vinto il sorteggio, ha deciso di ricevere. Quaranta secondi dopo aveva strappato il servizio all’altro, che dallo shock non si è più ripreso – ma, tanto per essere chiari, se anche si fosse ripreso non sarebbe cambiato nulla. Per un set e qualcosa il bruno ha messo in atto il Piano A, quello con cui nelle ore precedenti si era detto certo di poter vincere: attaccare, sparare tutto e non sbagliare mai. Bene, siccome qualsiasi cosa sparasse gli tornava indietro, nel migliore dei casi, alla stessa velocità, dopo un set e mezzo il poveretto ha tentato di passare al Piano A2: difendersi, sparare tutto e non sbagliare mai. La situazione è leggermente migliorata, il punteggio non abbastanza. Non solo. Sul 5/4, 30-30 in suo favore, quando era a cioè a due punti dal terzo set, il bruno ha messo dentro una prima a 215, che come noi era certo gli avrebbe dato il punto, o quantomeno avrebbe messo l’altro in grave difficoltà. Come no. Si è visto venire incontro qualcosa a una velocità verosimilmente superiore, e grazie a un primo piano tutti quanti gli abbiamo letto in faccia l’espressione che in genere introduce un attacco di panico. Legittimo, peraltro. 

Qualche minuto dopo Jannik Sinner ha alzato il trofeo, un gesto come al solito senza conseguenze apprezzabili sulla sua fisiognomica. Per le ragioni che conosciamo tutti, e per altre di carattere personale che lui stesso ha rivelato, non riteneva fosse il caso di darsi ai bagordi, e infatti nella serata newyorkese i festeggiamenti, ha fatto filtrare lui stesso, si sono limitati a un hamburger e una Coca col cerchio magico: ultimamente ristrettosi, per le stesse ragioni di cui sopra, alle dimensioni di un punto. So sinnerish. Con la mesta celebrazione è comunque finito – per il momento, anche se non sono ancora esclusi sviluppi poco piacevoli – lo Slam di Jannik. In parallelo, però, si era anche svolto quello degli altri.

Più che un torneo, è sembrato un remake di Hollywood Party, con tennisti e tenniste in gara per accaparrarsi il ruolo vacante di Hrundi V. Bakshi. Risultato, per quindici giorni on aura tout vu, direbbero i cuginastri. Reduci dall’unico match veramente memorabile dell’anno, la finale olimpica, Alcaraz e Djokovic si sono presentati a New York in condizioni fisiche e mentali che avrebbero impedito a entrambi di competere in un Challenger, non in uno Slam. Jack Draper è approdato alle semifinali battendo prima Tomas Machach – in una partita durante il quale il talento ceco è parso inseguire un record molto personale, quello di un match composto solo ed esclusivamente di gratuiti – e poi un De Minaur con evidenti difficoltà di movimento, che era piuttosto straziante anche solo guardare. E quando alla fine si è trovato davanti un avversario in grado di reggersi sulle gambe – il suo amico Sinner – Jack ha pensato bene non solo di vomitare ogni due o tre scambi,  come una qualsiasi vittima di Alien, una sostanza biancastra, ma anche di detergere con lo stesso asciugamano prima il terreno dell’Arthur Ashe, e poi il suo bel faccino: con l’irresistibile supplemento della giudice di sedia che gli intimava, in tono autoritario, di darci un po’ più dentro con lo straccio. Ancora? Va bene.

Andrej Rublev e Griga Dimitrov hanno giocato un incontro non verosimile, in cui ogni colpo sembrava accompagnato da un sottotesto – non vedo l’ora di farti vincere, solo che per riuscirci dovresti fare qualche punto. In fatto di sofferenze autoinflitte nessuno frega Rublev, e infatti è passato Griga, che tuttavia è uscito al turno successivo, insieme alle speranze residue di vedere qualcuno giocare a tennis come dio comanda (ma a questo, cioè al suo gioco sublime e spuntato, siamo rassegnati da tempo). Chiuderei qui, ma sarebbe ingiusto non citare Medvedev, che contro Sinner, nella presunta finale anticipata, ha incastonato ii tre o quattro game migliori della sua carriera in mezzo a tutti gli altri – senza dubbio possibile, i peggiori.

Non che l’altra metà del cielo se la sia cavata meglio. Contro Jessica Pegula, che in una carriera più che decorosa aveva sempre avuto il noto problema di superare i quarti in uno Slam, Iga Swiatek – numero 1 al mondo, e almeno sul rosso non affrontabile da nessuna collega– ha perso in un’ora e mezzo in cui è sembrata, molto semplicemente, paralizzata da un terrore senza nome, cui va senz’altro attribuito lo sbalorditivo 60% di gratuiti messo a referto. È un numero che fa riflettere, ma non quanto le parole in conferenza stampa di Swiatek, che alla domanda di un cronista sulla possibile necessità di una pausa, peraltro auspicata dalla stessa Swiatek poche settimane prima, ha risposto più o meno sì, servirebbe, ma non possiamo fermarci: se ci dicono di giocare, noi giochiamo e basta. Bene così, però poi le conseguenze si vedono.

Qualche ora prima di Iga erano scese in campo Karolina Muchova – il cui gioco è la miglior approssimazione possibile all’arte che il tennis brutale di questi anni ci conceda – e Beatriz Haddad Maia. Qualsiasi cosa promettesse, l’incontro ha offerto tutt’altro, e cioè un’affascinante ibridazione fra dramma e farsa: per ragioni tutte sue, e certamente rispettabili, Karolina ogni due o tre game sfrecciava – letteralmente – negli spogliatoi, concedendosi una pausa che non pareva la rinfrancasse: mentre l’altra rimaneva sì in campo, però piegata in due – a quanto avrebbe dichiarato poco dopo, dall’ansia. La situazione è degenerata – insieme ovviamente alla qualità del match – fino al momento, quantomeno bizzarro, in cui entrambe si sono accasciate sulle rispettive panchine, assistite in contemporanea da due distinti staff medici. Qualcosa che, francamente, non si era mai visto.

Questa specie di follia collettiva, di cui ho citato solo alcune manifestazioni, si può anche considerare un surrogato a suo modo intrattenente di una competizione che non c’è stata – e probabilmente non poteva esserci. Ma non c’è dubbio che autorizzi alcune constatazioni più generali. La prima, lampante, è che il calendario di ATP e WTA è arrivato al limite della sostenibilità, e forse l’ha superato. Ai livelli di fisicità in cui ormai va giocato, uno sport individuale non può avere un programma di 49 settimane l’anno –non senza conseguenze come quelle appena descritte, o almeno non senza vedere in campo giocatori e giocatrici stremati, svuotati, demotivati. Se non altro, l’inserimento obbligato delle Olimpiadi nel calendario 2024 e le sue conseguenze dovrebbero derubricare la proposta di introduzione di un quinto Slam – per cui molti scalpitano, ad esempio a Indian Wells – a una pura e semplice formazione delirante. Tuttavia, non si sa mai. Intervenire nel groviglio di interessi stratosferici che alimenta il tennis contemporaneo non è semplice, ma se si vuole evitare che il tennis diventi una prosecuzione del rollerball con altri mezzi qualcosa va fatto, e anche alla svelta. 

(Photo by KENA BETANCUR/AFP via Getty Images)

Poi – ma qui prendere provvedimenti è ancora più difficile – c’è il problema della Lost Generation, quella cresciuta, anzi non cresciuta, all’ombra dei Big Three (o Four). Col loro ritiro tutti pensavano che i dieci o quindici ex poppanti più forti sarebbero finalmente approdati all’età adulta, cioè alla prospettiva di vincere almeno uno Slam, ma fin qui non è successo. Sono arrivati Sinner e Alcaraz, vero, ma tutti gli altri, pur avendo ormai raggiunto una fase della carriera teoricamente senatoriale, continuano a vagare per i tabelloni senza sapere con esattezza perché, e portandosi dietro una mestizia che non riescono a scrollarsi di dosso. In parte si tratta di una banale sindrome da abbandono – «Sì, è bello vincere qui, ma non come prima» ha dichiarato Tiafoe giorni fa, senza che ci fosse bisogno di precisare a quale periodo l’avverbio di tempo si riferisse. Ma è comunque una sindrome, e la conseguenza è che i risultati fino a tre o quattro anni fa impossibili oggi sarebbero a portata di mano, però non arrivano. E comincia a farsi tardi.

Uno stato di cose sconfortante per tutti, a cominciare da noi voyeur. Se non cambia qualcosa, nelle prossime stagioni guardare il tennis si trasformerà, in mancanza di meglio, in uno studio entomologico del gioco di Sinner: della sua tattica, dei suoi movimenti, dei suoi progressi anche infinitesimali da un torneo o da un match all’altro, e delle sue lacune, peraltro sempre più impercettibili. Appassionante, ma fino a un certo punto, e credo che Sinner stesso, potendo, opterebbe per uno scenario diverso. In assenza di avversari all’altezza, anche lo smalto di un fuoriclasse si opacizza, e il suo gioco diventa una pura performance: avvincente più o meno come la stipula di un rogito, se senza il brivido che qualcosa possa, all’ultimo momento, andare storto.

Il problema però è che avversari, alle viste, non ce ne sono – tranne ovviamente Alcaraz, il cui enorme sorriso solare cela tuttavia, ormai è evidente, una preoccupante attrazione per l’ombra. Nessuno pretende altri Carlitos, beninteso, anche perché non si allevano in batteria, però qualcuno in grado di portare Sinner un po’ più vicino ai suoi limiti sarebbe il benvenuto, Ad esempio, basterebbe – si fa per dire – trascinarlo alla quarta ora, un’area di tenebra dove fin qui, quelle poche volte che ci è arrivato, ha cominciato a balbettare. Già, ma chi si offre volontario? Tutto può succedere, per carità, ma a settembre 2024 uno scorre la classifica ATP e pensa che se andasse in giro per il circuito chiedendo di qualcuno che possa quantomeno tirare in lungo con Sinner rischierebbe la stessa figura dello Hrundi di cui sopra, quando avvicina un ospite qualsiasi della festa a Hollywood, e col suo sorriso più soave gli fa: “Scusi, lei parla indostano?”.