Quando la Serie A era la Premier League

Negli anni Ottanta e Novanta, il campionato italiano era il più ricco, il più glamour, il più amato da tutti gli appassionati europei. È da lì che i dirigenti inglesi hanno tratto l’ispirazione per creare la lega egemone del nostro tempo.

Paul Gascoigne aveva vinto alla lotteria. Le sue prestazioni a Italia ‘90 lo fecero diventare una star, e riuscirono a risvegliare l’Inghilterra dal suo torpore. Due anni più tardi, Gazza – l’adorabile genietto che arrivava dalla capitale inglese delle miniere di carbone – fu acquistato dalla Lazio. L’attenzione era spasmodica: il giocatore più esaltante d’Inghilterra nel campionato più esaltante al mondo. Per festeggiare, arrivò Football Italia: un programma diventato immediatamente un successo sulla tv nazionale, condotto dal giornalista James Richardson – che sorseggiava espressi baciato dal sole, lanciandosi in pronunce acrobatiche con La Gazzetta dello Sport piegata davanti a lui… Di punto in bianco, tutti impazzirono per il calcio italiano. Tre decenni dopo il primo episodio di Football Italia e due decenni dopo l’ultimo, gli inglesi non ne sono più tanto innamorati. Resta qualche eccezione – un bel po’ di account Twitter di nicchia e certi blog infatuati – ma sono quasi sempre incentrati sulla nostalgia. La Serie A, oggi, è in gran parte scomparsa dalla televisione. I giornali non parlano delle rivali per lo scudetto o della corsa al titolo di capocannoniere. Una volta, in qualsiasi campetto d’Inghilterra i bambini urlavano “Baggio!” o imitavano la mitraglietta di Batistuta. Ma oggi non si accapigliano per chi debba essere Vlahovic o Immobile: il calcio italiano contemporaneo raramente si insinua nell’immaginario britannico. Cosa è andato storto?

Non si può non puntare il dito contro un carismatico ingegnere civile chiamato Florentino Pérez e la sua grande idea: i Galácticos. Quel Real Madrid così imbottito di stelle, nei primi Duemila, aveva concentrato il prestigio di una lega intera in una singola squadra. Era inevitabile che rubasse la scena a chiunque altro: perché perdere tempo a guardare i migliori giocatori al mondo sparsi un po’ ovunque quando li avevi, tutti insieme, in una sola squadra? Sky aveva portato il calcio spagnolo in Inghilterra nel 1998, nutrendo quello stesso pubblico che Football Italia aveva contribuito a creare. Quando, nel 2000, Luís Figo si trasferì dagli arcirivali del Barcellona, i Galácticos erano pronti per avviare un dominio culturale. Quindi, alla costante ricerca dei talenti più puri sulla faccia della terra, il Real Madrid rivolse la sua attenzione all’Italia. Nei due anni che seguirono, Zidane e Ronaldo lasciarono rispettivamente Juve e Inter per Madrid. Il vento era cambiato. In Serie A c’erano ancora le stelle, ma ormai ce n’erano altrove. Negli anni Novanta, i club italiani arrivarono sette volte in finale di Champions League. Tante quante negli ultimi 23 anni. C’è un’altra risposta alla domanda, altrettanto cinica. Mentre nel 2000 la Spagna scavalcava l’Italia come miglior lega nei ranking Uefa, il calcio inglese stava riguadagnando importanza. Anche il suo stesso nome – Premier League, introdotto nel 1992 – rendeva chiare le intenzioni. L’obiettivo era essere predominanti. Dopo i turbolenti anni Ottanta, sembrava un’idea quantomeno presuntuosa. Il calcio inglese era alla disperata ricerca di un rinnovamento: la NFL degli Stati Uniti era il riferimento commerciale, ma l’ispirazione rimaneva l’Italia.

«Un uomo che non è mai stato in Italia è sempre consapevole di un’inferiorità», ha scritto l’autore inglese Samuel Johnson (1709-1784), «per non aver visto quello che un uomo dovrebbe vedere». I Grand Tour dell’epoca di Johnson erano un rito di passaggio per molti giovani dell’aristocrazia inglese, che rastrellavano l’immenso patrimonio culturale italiano come facendo scarpetta, alla ricerca dell’Illuminazione. Al loro ritorno a casa, questi giovani più faccia-da-schiaffi della storia passavano le serate a dissertare delle loro scoperte intellettuali ed estetiche. La gioventù inglese aveva visto il Bel Paese, e ne rientrava rinvigorita. Nel Diciassettesimo secolo, l’Inghilterra era in subbuglio. Sconvolta da un’epidemia e da una guerra civile, era alla disperata ricerca di nuove idee, e in fretta. Forse non è così sorprendente che un Paese ancora soggiogato dall’invasione romana di circa un millennio prima – un’invasione che trascinò la Gran Bretagna fuori da uno stato pastorale e le diede città, acquedotti, vino – dovette guardare all’Italia come faro per le generazioni future.

Nell’arco di un secolo, sotto l’impulso di quei viaggiatori dei Grand Tour ormai cresciuti, l’Impero Britannico avrebbe conquistato un quarto della superficie terrestre. Poi, negli anni Ottanta del Novecento, arrivò un altro tipo di Grand Tour. Un nuovo rito di passaggio per i giovani inglesi della classe operaia in cerca di qualcosa di nuovo. Con volti paonazzi, capelli a scodella, impermeabili di Sergio Tacchini e sneaker adidas Trimm Trab, una generazione di tifosi di calcio si ritrovò in Italia per seguire le vicende della propria squadra nelle coppe europee. Giovani Scousers intraprendenti viaggiavano per una trasferta italiana del Liverpool, saccheggiando negozi, riportando in patria ogni tipo di nuovi entusiasmi – sneaker tedesche non ancora lanciate sul mercato e i capispalla appariscenti dei Paninari. Quelle avventure contribuirono a stimolare una generazione costretta a fare i conti con un Paese martoriato da ristrettezze e disoccupazione.

Ma i giovani delinquenti in giro per l’Europa divennero anche il fulcro della cultura dei casual che presto sarebbe sfociata nella violenza. Le conseguenze di eventi tragici come Heysel nel 1985 e Hillsborough nel 1989 portarono al ban dei club inglesi dalle competizioni europee per cinque anni e alla demonizzazione dei loro tifosi. Il governo conservatore implorò la popolazione perché voltasse le spalle a quello che una volta era chiamato beautiful game. Le presenze negli stadi precipitarono. Superato in popolarità dallo snooker, il calcio inglese, il passatempo nazionale, era in ginocchio. Qualcosa doveva cambiare. Il calcio e i suoi tifosi erano alla ricerca di ispirazioni, ancora una volta. Le trovarono a Italia ‘90. Con l’inno del Mondiale dei New Order, “World in Motion”, e l’aria “Nessun Dorma” di Pavarotti, arrivò una ventata di aria fresca. Era tutto così nuovo, audace, eccitante. Vi ricordate quando il calcio era una cosa divertente? Potrebbe esserlo ancora.

Ronaldo ha giocato nell’Inter dal 1997 al 2002; in totale, ha accumulato 99 presenze e 59 in tutte le competizioni (Claudio Villa/Allsport/Getty Images/Hulton Archive)

Tra Italia ‘90 e Football Italia, pensate a questo momento come all’ultima propaggine della tradizione inglese dei Grand Tour. Senza, probabilmente, non ci sarebbe stata nemmeno la Premier League. Per due decenni, niente poteva nemmeno avvicinarsi alla Serie A: i colori, le folle, l’atmosfera. Tifosi avvolti nelle nuvole rosse dei fumogeni che guardavano i più grandi giocatori del pianeta fare cose sensazionali con un pallone da calcio. Si dice che l’erba del vicino è sempre più verde; paragonato al calcio inglese dell’epoca, quella italiana era fluorescente. I club inglesi più importanti presero appunti. La strategia era semplice: trasformare il calcio inglese da un pasticcio di carne in una cucina elaborata, eliminare il caos e raddoppiare i prezzi. In occasione del suo debutto nel 1992, qualche settimana dopo il passaggio di Gazza alla Lazio, lo slogan della Premier League recitava: “UN GIOCO COMPLETAMENTE NUOVO”. La ricompensa sarebbe stata astronomica.

La neonata Premier League inseguiva il glamour dell’Italia. Nel 1995 arrivò la prima dichiarazione di intenti. L’acquisto di Ruud Gullit da parte di un Chelsea stagnante a metà classifica – ben prima che i petrodollari forgiassero i loro successi – scaricò scosse elettriche lungo tutto il calcio inglese. Anche se era passato qualche anno dal suo periodo di punta, era ancora la rappresentazione plastica della golden age del calcio italiano. Zola, Ravanelli, Di Canio seguirono di lì a poco. I trasferimenti di Dennis Bergkamp e Thierry Henry da Inter e Juventus all’Arsenal a fine anni Novanta furono altre tappe fondamentali. Proprio all’Arsenal, Arsène Wenger introdusse metodi “rivoluzionari” – un’attenzione particolare all’alimentazione e al benessere fisico, elementi tipici del calcio italiano – che inizialmente furono derisi dai giornali inglesi. Ma i tempi stavano cambiando. Il calcio inglese aveva scoperto la pasta. Il resto è storia.

Un campionato così ricalcato sulla Serie A sfociò ben presto in un assorbimento vero e proprio. Mentre le squadre di vertice attraevano le superstar, il resto dei club divennero marmaglie di girovaghi rapidissimi e scoperte esotiche da climi lontani. C’erano brasiliani a Middlesbrough, colombiani a Newcastle, peruviani nei sobborghi di Birmingham. «Chi avrebbe mai pensato che i sudamericani potessero venire qui?», disse il superagente Pini Zahavi. «Il loro sogno è sempre stato giocare in Spagna o in Italia, non in Inghilterra. Ma le cose cambiano…». Un cambiamento che non poteva essere più evidente in una vecchia città operaia nella Greater Manchester. Non potrebbe esserci una squadra più “cult Serie A” dei Bolton Wanderers di metà anni Duemila: era allenato da Sam Allardyce, e mescolava Jay-Jay Okocha, Youri Djorkaeff, Hidetoshi Nakata, Ivan Campo, Bruno N’Gotty, Fernando Hierro, El-Hadji Diouf e Vincent Candela con giocatori locali come Kevin Davies e Kevin Nolan. La Premier League era diventata finalmente il posto giusto.

L’Italia era da ringraziare tanto quanto il football americano. Gli inglesi avevano preso quello che gli serviva dalla Serie A – fantasia, multiculturalismo, carboidrati. Perché preoccuparsi delle conseguenze? Il successo della Premier League portò denaro. Moltissimo denaro. Ha anche portato via un po’ della vecchia gioia. Il romanticismo del miscuglio di talenti della squadra di Allardyce è cosa superata. I giocatori della Premier League moderna possono arrivare da qualsiasi Paese, ma per avere successo devono comportarsi come dei robot. Il gioco inglese è troppo compresso per permettere alla bellezza di fiorire liberamente. L’umanità è un orpello, rispetto alle necessità. Ma mentre crescono le tensioni tra i top club della lega e i tifosi – per i soldi, ovviamente – potrebbe esserci un’opportunità per l’Italia per riguadagnare spazio.

Pur non potendo competere con l’opulenza finanziaria dell’élite inglese, l’umile opinione del sottoscritto è che il calcio italiano non dovrebbe provare a emularla. I tifosi meritano da tempo un campionato dove l’intrattenimento è prioritario. E l’intrattenimento non sempre ha bisogno di gloria. Per ritornare nei cuori dei tifosi di tutto il mondo – dai cieli grigi del Regno Unito e oltre – il calcio italiano deve tornare alle sue radici. Il calcio inglese spesso può essere soffocato dalla sua brama di titoli, ed essere dolorosamente serio. Il calcio spagnolo, anche, è piatto, strozzato dal successo del suo duopolio di prima classe. E allora: ecco l’Italia. Abbracciate i colori e il caos. Ricordate quando il calcio era divertente? Potrebbe esserlo ancora.

Da Undici n°49