Chi si aspettava un Cole Palmer così?

Storia non convenzionale del più brillante talento del calcio inglese.

Con indosso un parka, Cole Palmer si sarebbe confuso bene nella folla ad concerto dei Kaiser Chiefs dei primi anni Duemila, oppure in un gruppo di tifosi in qualsiasi stadio inglese, inquadrati mentre imprecano al rallentatore dopo un gol subito dalla loro squadra, dietro la rete appena gonfiata. Non darebbe mai nell’occhio fuori dal campo, se non fosse uno dei talenti più luminosi e decisivi della Premier League. Il suo modo di giocare è elegante e allo stesso tempo ciondolante, quasi languido, come tutti i fantasisti vicini al metro e novanta che amano cercare il tunnel, il colpo di tacco e altri giocate spettacolari, ma ha anche un’efficienza brutale: ogni volta che tocca palla sembra poter incidere in modo decisivo, ogni sua ricezione si trasforma improvvisamente in un passaggio verticale così tagliente e chirurgico che sembra poterne produrre in serie, anche senza fermarsi a pensare o a controllare. Contro il Brighton, nella partita in cui ha fissato un doppio record segnando quattro gol nel primo tempo, tre dei quali in meno di dieci minuti, lo ha fatto con la precisione e facilità di replica di una macchina. E se Nicolas Jackson quel giorno fosse stato un po’ più ispirato sotto porta, probabilmente avrebbe registrato un primato anche per gli assist.

Cole Palmer è un calciatore molto particolare, ha un istinto finissimo nel mandare in porta i compagni da qualsiasi posizione, nell’usare il corpo per evitare l’uomo con finte e virate, ma è anche un killer quando entra in area. Produce un volume sorprendente di giocate, che si traduce in numeri altrettanto significativi: la scorsa stagione ha segnato 22 gol da trequartista, secondo in classifica marcatori soltanto a Haaland, il centravanti meno atipico del mondo. In un’intervista dello scorso anno, Pochettino ha detto di voler dimostrare che il suo Chelsea non era il «Cole Palmer Football Club», ma probabilmente era il primo a sapere che l’influenza del ragazzo di Manchester sui Blues aveva esattamente quella consistenza. E non sarebbe stato possibile spiegarla meglio con parole diverse.

Eppure, guardandola con gli occhi di un anno fa, unirsi al Chelsea è stata una scelta rischiosa, uno squarcio di irrazionalità sulla tela di una carriera che stava procedendo a piccoli passi, ben calcolati. Lui, nato e cresciuto a Manchester e tifoso accanito dello United – Rooney era il suo idolo e pare che i primi tempi, sotto la maglia celeste, ne indossasse sempre una dei Red Devils – si unisce al settore giovanile del City perché la sua famiglia lo reputava un contesto molto attrezzato e quindi adatto a valorizzarlo. Arrivato nel club a otto anni, Palmer si fa l’intera trafila delle giovanili dei Citizens, fino al momento in cui Enzo Maresca – allora tecnico dell’Under 21 – lo trasforma da trequartista a esterno offensivo: il suo talento travolgente e inusuale non passa inosservato a Guardiola, che nel 2020 inizia a portarlo sporadicamente in prima squadra. Nella sua zona di campo, però, ci sono Bernardo Silva, Foden e Mahrez: i due anni successivi mette a referto una ventina di presenze, ma sente che le sue possibilità di crearsi uno spazio in prima squadra sono sature.

Quando il Chelsea si interessa a lui e decide di offrire al Manchester City 42 milioni di sterline, Palmer si trova davanti a un bivio molto più complicato di quanto potesse sembrare: da una parte rimanere nel regno dell’ordine, una catena di montaggio del talento diretta dal miglior allenatore al mondo, in cui tutto funziona talmente bene che probabilmente non c’è nemmeno bisogno di lui. Dall’altra la versione opposta e quasi grottesca di quello che può essere una squadra con budget illimitato: una rosa ipertrofica, piena fino all’orlo di costosissimi giocatori offensivi, costruita con più ingordigia che criterio e reduce da una stagione da incubo, che ha messo a nudo tutte le sue contraddizioni. Forse è la stessa ingordigia che in quel momento li spinge a desiderare il giocatore che aveva determinato l’esito del Community Shield con una sua giocata estemporanea. In entrambi i casi, il rischio di farsi male è altissimo, che sia appassendo in panchina o venendo macinati da un contesto disfunzionale.

Con il Manchester City, Palmer ha disputato 41 partite ufficiali con sei gol. E ha conquistato sei trofei: due Premier League, la Champions League, la FA Cup, la Coppa di Lega e la Supercoppa Europea (Michael Regan/Getty Images)

Guardiola prova a trattenerlo facendo leva sul fatto che la cessione di Mahrez in Arabia gli avrebbe riservato più minuti, ma lui non si fida fino in fondo: «Ero a un punto in cui avevo bisogno di giocare. Facevo venti minuti e poi non giocavo per cinque partite, poi rientravo per cinque minuti: non riuscivo a trovare ritmo e per questo ho scelto di andarmene». Cole Palmer, pur di giocare, decide di accogliere il caos, un’operazione che richiede coraggio e soprattutto la convinzione di poterlo governare a proprio vantaggio: il fatto di non essere un semplice giocatore di sistema lo aiuta, così come lo aiuta Mauricio Pochettino, che riesce ad affidargli – o più semplicemente gli lascia prendere con gran naturalezza – la leadership di una squadra con mille difetti. «Voglio sempre avere palla e far succedere cose” racconterà poi Palmer. «Quando la squadra è in difficoltà mi piace che i miei compagni si girino verso di me, e che l’allenatore mi dica di sentirmi libero di esprimere le mie abilità».

Quando Pep Guardiola parla di Cole Palmer, lascia trasparire un po’ di rimpianto. O quantomeno si prende le responsabilità di quell’addio, ammettendo che, se gli avesse concesso i minuti che aveva invece dato a Foden, probabilmente sarebbe ancora al City – allo stesso tempo, però, così ricorda che al suo posto ha implicitamente scelto Foden, non uno qualsiasi. Obiettivamente, era difficile immaginare che il suo impatto con la Premier da giocatore al centro di un progetto sarebbe stato così devastante, tanto che nemmeno lo stesso Palmer se lo aspettava. Il suo estro non solo gli ha consentito di non perdersi in una squadra con molti problemi, ma gli ha permesso di caricarsela sulle spalle fino a raggiungere il sesto posto, un piazzamento deludente rispetto alle smisurate ambizioni del club, ma tutt’altro che scontato, per come si era messa la stagione. Ora, con l’arrivo di Maresca, il Chelsea sta cercando di costruirsi un’identità tattica granitica dalla quale ripartire insieme al talento di Palmer – che è stato persino escluso dalla lista per la prima fase di Conference League, come se tutte le energie del diamante dei Blues dovessero essere impiegate per ricostruirsi e tornare competitivi in Premier League.

In questo positivo inizio di stagione, Maresca sembra aver scolpito per Palmer uno spazio per esprimersi in libertà anche in una fase di possesso con riferimenti posizionali più forti rispetto a quella di Pochettino: tocca tanti palloni nei corridoi centrali, è ancora il cuore creativo della squadra e viene coinvolto molto anche in fase realizzativa, praticamente da seconda punta. In sei partite di Premier League, Cole Palmer ha segnato sei gol e servito quattro assist: è presto per dire se ci riuscirà, ma se l’obiettivo è confermarsi come trascinatore in un Chelsea diverso e potenzialmente di nuovo competitivo, sembra sulla buona strada. L’unica cosa certa è che da un anno il calcio inglese ha una nuova stella ed è difficile guardarla senza entusiasmarsi.