Rafa Leão è un mistero

Perché Fonseca sta mettendo in panchina il miglior giocatore del Milan?

22 Maggio 2022. Reggio Emilia. Il Milan ha appena vinto il suo diciannovesimo scudetto. Rafael Leão, decretato MVP della stagione, nonché autore di tre assist nell’ultima e decisiva partita contro il Sassuolo, viene portato in trionfo dal suo popolo in giro per il campo. Sembra un messia: ha 23 anni, per tutta la stagione ha seminato con facilità irrisoria i terzini avversari e sembra pronto a consacrarsi come uno degli esterni più forti al mondo. Due anni e mezzo dopo, tutto è cambiato: tre panchine nelle ultime quattro partite, un solo gol nelle prime tredici gare stagionali e un sorriso – quello che l’ha sempre contraddistinto nel suo approccio fanciullesco al gioco – ormai trasformatosi in un muso lungo, triste, imbacuccato nel giaccone che indossa in panchina. Lo stadio, a ogni suo errore, a ogni ciondolamento e a ogni corsa mancata, ora mugugna. Da messia, Rafa sembra essere diventato un falso profeta.

Partiamo da una premessa: Leão, negli ultimi due anni, non è cresciuto quanto ci si aspettava. Non sembra abbia lavorato più di tanto sui fondamentali in cui ha sempre manifestato delle carenze: il tiro, i movimenti in area, l’attacco della profondità e – soprattutto – la fase di non possesso. Nel calcio di oggi, non esiste giocatore che possa essere del tutto esentato da compiti difensivi: persino Mbappè al PSG, come testimoniato da un recente documentario su Luis Enrique, era parte dei meccanismi della prima pressione. Ed è proprio questo, sembra, il motivo per cui Paulo Fonseca sta preferendo Okafor: lo svizzero pressa con più intensità, rincula più rapidamente e copre con più attenzione le linee di passaggio degli avversari. Ma, ovviamente, in termini di pericolosità offensiva, Leão è un giocatore nettamente più forte di Okafor. Non solo: è il giocatore più forte del Milan, il suo asset più prezioso. Con lui in campo, negli ultimi tre anni il Milan ha vinto il 60% delle partite (2.1 punti di media a gara); senza di lui, la media scende al 36% (1.3 punti di media).

Pensare che, alla terza panchina in quattro partite, quella di Fonseca sia solo una scelta di campo, è piuttosto ingenuo. L’allenatore portoghese tenta di ridimensionare il caso partendo dall’idea che tutti i giocatori siano uguali – «Leão per me è come Musah o Loftus-Cheek», ha detto nel post-partita di Monza. Ma anche lui, in cuor suo, sa anche che alcuni elementi hanno un peso diverso. Lo ha detto per ultimo Thiago Motta in una recente conferenza: stampa «Non tutti i giocatori sono uguali. Sono ragazzi diversi, che vanno trattati diversamente e giocano in maniera diversa». Ed è qui che si gioca la partita sulla scommessa di Fonseca: come reagirà Leão?

Molti tifosi del Milan concordano con il cambio di approccio: dopo anni in cui Rafa è stato coccolato, è giusto tentare di metterlo davanti alle sue responsabilità. Se la questione è meramente di campo, Fonseca ha tutto il diritto di pretendere più sacrificio da Leão. Ma quel che occorre chiedersi è se un approccio di tipo punitivo, per giunta così prolungato, sia davvero quello giusto, per entrare nella testa di un uomo come Rafa. Se tutti i caratteri sono diversi, ne consegue che ciascuno reagisce agli stessi stimoli in modo diverso: alcuni, nella posizione di Leão, potrebbero farsi venire un moto d’orgoglio, con una voglia rabbiosa di riscattarsi; altri hanno un carattere diverso, hanno bisogno di sentirsi importanti, centrali, e una volta sviluppato un rapporto di piena fiducia con l’allenatore, allora sono pronti a prodigarsi al massimo per lui, per la squadra. Il dubbio riguarda la fiducia: Rafa Leão, da quando è arrivato Fonseca, si è mai davvero fidato di lui? Ha mai pensato che potesse essere l’allenatore giusto per far svoltare la sua carriera? E Fonseca, dal canto suo, ha saputo avvicinarsi a lui nella maniera più corretta?

Se la sua strategia finisse col tagliare del tutto fuori Leão dal progetto-Milan, Fomseca avrebbe fallito. In fondo il suo primo interesse deve essere quello di recuperare e valorizzare i migliori giocatori in rosa, e Rafa è senza dubbio uno di questi. Da anni, l’insofferenza mediatica nei confronti della sua attitudine, svagata e leggera, porta a volergli cucire addosso a tutti i costi standard irrealistici di cultura del lavoro, come se un approccio “à la Cristiano Ronaldo” non fosse qualcosa di innato – alla stregua del talento sportivo – ma una virtù che si può acquisire. Rafa non sarà mai così, vive il calcio come una passione, non come un ossessione. Avrà sempre i suoi difetti, le sue carenze. Ma ha anche delle qualità che, ancora oggi, lo rendono il giocatore più forte del Milan.

I dubbi, insomma, riguardano l’efficacia dell’approccio punitivo. Se l’obiettivo è aiutarlo, forse sarebbe più giusto adattarsi al suo carattere: In gioco c’è tanto, sia sul piano sportivo che su quello economico: se Fonseca perderà la sua scommessa il danno sarà duplice, il Milan avrà indebolito il suo potenziale e soprattutto avrà dilapidato un patrimonio da più di cento milioni di clausola. À chiaro, infatti, che se mai si dovesse arrivare a una rottura definitiva, il Milan non potrebbe certo evitare uno sconto sul cartellino. Il rischio è altissimo, tenendo conto che i rossoneri, al momento, sono ben distanti dalla vetta della classifica, il gioco continua a latitare e la pressione sull’ambiente è ai massimi livelli. Per vincere del tutto la sua scommessa, all’allenatore portoghese serve un’impresa: vincere le partite anche senza Rafa, e nel frattempo recuperarlo mentalmente. Per ora, non sembra ci stia riuscendo.

Per stessa ammissione di Rafa, anche il rapporto coi tifosi è andato deteriorandosi negli ultimi due anni: «L’energia che ricevo e che sento dai tifosi è cambiata rispetto a due anni fa», ha detto prima della partita di Champions contro il Leverkusen. Allo stadio, queste parole di Leão prendono vita: i cori e gli applausi sono mutati in fischi, i sospiri di esaltazione in mugugni, la fiducia in sconforto. I tifosi del Milan sembrano dividersi sul caso: da un lato c’è chi si schiera con Fonseca, sostenendo che da anni Rafa si sia adagiato sugli allori e abbia bisogno di un allenatore che lo costringa a maturare per fare il salto di qualità definitivo; dall’altro, c’è chi sostiene che, proprio per quel «bene della squadra» citato più volte da Fonseca, il miglior giocatore del Milan non possa essere sacrificato solo perché in fase di non possesso non pressa quanto la sua riserva. E allora si trovi il modo di farlo sacrificare di più, ma Rafa deve giocare.

Tra queste due posizioni forse ce n’è una mediana, la quale appoggia il tentativo di responsabilizzare di più Leão, ma dubita del fatto che Fonseca sia la persona più indicata per farlo. Dopo due anni interlocutori per la sua carriera – buoni in termini di numeri, ma non sufficienti per le aspettative che c’erano su di lui – e ora che è arrivato ormai alla soglia dei 25 anni, ora Rafa si trova a un bivio: deve decidere se diventare un campione capace di fare la differenza con continuità al massimo livello, o rimanere un crack che vive di fiammate episodiche. Per aiutarlo a fare questo salto, molti tifosi milanisti agognavano l’arrivo di Antonio Conte: un allenatore vincente, capace di entrare nella testa dei giocatori fino a convincerli a dare la vita in campo per lui. Dopo Giampaolo e Pioli (che da bambino l’ha reso uomo, ma non ha saputo chiedergli di più), per Rafa era arrivato il momento di incontrare un tecnico del genere, di dare una sterzata definitiva alla sua carriera. È plausibile che, così come ha deluso i tifosi, la scelta di Fonseca possa aver in parte deluso anche lo spogliatoio rossonero, già orfano di Paolo Maldini – dettaglio da non trascurare mai, specie se si parla di Rafa e Theo. A detta di molti, l’ex allenatore del Lille non aveva e non ha la personalità e il carisma necessari per imporsi in uno spogliatoio privo di leadership come quello del Milan, a maggior ragione se si considera l’assenza dei vertici dirigenziali,

Con la maglia del Milan, quindi dal 2019 a oggi, Rafa Leão ha accumulato 221 presenze e 59 gol in tutte le competizioni (Marco Luzzani/Getty Images)

Se si dovesse analizzare solo la drastica scelta di panchinare Leão, questo pregiudizio su Fonseca verrebbe immediatamente smentito: fare a meno del giocatore più importante della squadra denota senz’altro una dose non indifferente di coraggio. Ma guai a confondere l’autorità con l’autorevolezza. Si può essere autoritari pur senza essere autorevoli, e in tal caso non si è credibili, non si è efficaci. Esiste il rischio che Fonseca, dopo mesi a sentirsi dire che i tifosi rossoneri gli preferivano Conte perché desideravano un generale di ferro, abbia provato a indossare forzatamente i panni di un hombre vertical pronto a imporre la sua giustizia su Milanello. Questo rischio va preso in considerazione perché, se non si trattasse solo di una posa, e dunque l’allenatore avesse davvero presa sul gruppo, allora la risposta dei giocatori, da subito, sarebbe stata diversa.

Invece, i casi che testimoniano il contrario si sprecano: a Parma, nella seconda giornata di campionato, Theo trotterella in campo e fa subire due gol al Milan, mentre Leão, fornito un assist a Pulisic, si preoccupa di zittire qualche tifoso in curva; nella giornata successiva, Fonseca fa fuori entrambi per la partita di Roma con la Lazio: loro entrano, si rivelano decisivi e si rifiutano di partecipare al cooling break con i loro compagni di squadra; a Firenze, su due rigori a disposizione, nemmeno uno viene battuto dal rigorista designato dall’allenatore (Pulisic): nel primo caso si presenta Theo, forse perché è il suo compleanno; il secondo lo batte Abraham dopo che Tomori fa di tutto perché sia proprio lui a tirare. Infine, le tre panchine nelle ultime quattro partite di Leão, o la panchina punitiva di Abraham e Tomori contro l’Udinese. Tutte queste decisioni restituiscono il quadro di una squadra il cui allenatore non sembra abbia piena presa sul gruppo.

La netta sensazione, quindi, è che Leão e Fonseca non si siano mai presi. E viene difficile pensare che possano farlo dopo una punizione prolungata. E chissà, forse se in rosa ci fosse un’alternativa credibile a Theo Hernández (e qui la colpa non è certo di Fonseca), Leão siederebbe in panchina col suo compagno di fascia. Tutte le colpe, però, vanno distribuite: Fonseca è stato lasciato solo a Milanello da inizio stagione, senza alcun tipo di supporto da parte della dirigenza. Prima del derby, nel momento di massima pressione sul tecnico, la società non si è preoccupata minimamente di smentire la ridda di nomi dei suoi possibili sostituti: l’allenatore ha preparato la sua ultima spiaggia a Milanello solo, delegittimato e quasi virtualmente esonerato. E lo stesso vale per la gestione dei casi spinosi in spogliatoio. Invece si è lasciato correre, la polvere si è accumulata sotto al tappeto e i nervi si sono fatti sempre più tesi, fino all’esplosione definitiva. Ora il Milan è una vera e propria polveriera e il club sembra aver demandato in toto a Fonseca, allenatore sempre in bilico, la gestione dei suoi patrimoni più importanti. Che sia schianto o risalita, non ci saranno mezzi termini per la scommessa del tecnico rossonero. Così come per il futuro di Leão: o rinascerà da messia, o sarà costretto a lasciare il Milan da falso profeta.