Dieci momenti per celebrare Alessandro Del Piero

Un'icona del calcio italiano ha compiuto cinquant'anni.

Oggi è il giorno in cui Alessandro Del Piero compie 50 anni. Visto che è stato amatissimo, visto che è stato un’icona per più di una generazione di tifosi e appassionati di calcio, ci è sembrato giusto celebrarlo nel modo forse più ovvio, ma anche più significativo: abbiamo chiesto ad alcuni dei nostri autori/collaboratori – naturalmente ne abbiamo messi insieme dieci, quella sul numero è stata una scelta praticamente inevitabile – di scrivere un ricordo della sua carriera, per la precisione un breve racconto di un momento preso dalla sua ampia e variegata biografia calcistica. È venuto fuori un bel collage fatto di gol, esultanze, di tributi e di applausi. In pieno stile-Del Piero.

Borussia Dortmund-Juventus, 1995

Il 13 settembre 1995 è il giorno della nascita del tiro a giro. Del gol alla Del Piero. La partita è Borussia Dortmund-Juventus, la prima di quella Champions che a fine anno sarà alzata dai bianconeri di Lippi. Si gioca sotto una pioggia battente. Il punteggio è sull’1-1. Paulo Sousa lancia Alex sulla fascia sinistra. Lui affronta l’avversario, temporeggia, sembra arretrare, invece sta solo conquistando il vertice dell’area, la sua rampa di lancio. E da lì fa partire quella traiettoria che va a morire all’incrocio dei pali. Non sappiamo se sia il gol più bello di Del Piero (quello del 3-2 alla Fiorentina resta a tutt’oggi fisiologicamente inspiegabile), certamente è quello che più di tutti ha contribuito a creare il suo mito. Il più iconico, si direbbe oggi. Come La Settimana Enigmistica, è il gol che vanta innumerevoli tentativi di imitazioni. Tra i professionisti e tra i bambini. (Massimiliano Gallo)

Juventus-River Plate, 1996

Le immagini televisive dal Giappone arrivavano ovattate, come se da un altro mondo, un pianeta ancora da scoprire. E Alessandro Del Piero era questo: un universo in attesa di essere scoperto. Alla fine del 1996 molto si era visto, ancora di più si voleva vedere: Del Piero aveva appena compiuto 22 anni, era la classica promessa che in molti speravano diventasse campione. O ancora di più: predestinato. A Tokyo, quella notte, in molti ne ebbero la certezza. Perché la Juventus sul tetto del mondo, contro un River Plate che negli anni successivi avrebbe esportato molti dei suoi migliori talenti in Serie A, ci finì grazie a un suo gol: essenziale, nella sua perfezione. Un pallone arpionato sugli sviluppi di un calcio d’angolo e la scarica sotto l’incrocio dei pali, il tutto con una velocità d’esecuzione e una precisione da veterano: la Juve, quella sera, prese le sue sembianze, e non le mollò più. Prima era stata la Juve di Platini, di Baggio, di Vialli. A Tokyo divenne la Juve di Del Piero. (Francesco Paolo Giordano)

Juventus-Monaco, 1998

È tutto in un video YouTube dal titolo emblematico, “When Del Piero Destroyed AS Monaco in 1998”: la tripletta segnata grazie a una punizione telecomandata e a due rigori, la Juventus che vince 4-1 e ipoteca la terza finale di Champions consecutiva, Sandro Piccinini che incornicia il tutto con la sua voce pieghevole, in grado di esaltarsi in un nanosecondo. In mezzo a tutto questo, oltre a tutto questo, c’è un giocatore dal fisico potente e dalla sensibilità tecnica sublime, un artista che dipinge calcio ma sa anche assorbire le spallate dei difensori avversari, un attaccante che domina letteralmente la partita: un esemplare che in Italia, forse, non eravamo mai riusciti a produrre e quindi a goderci. Quello della stagione 1997/98 è un Del Piero semplicemente perfetto, al punto che tutti – soprattutto da noi, ma in realtà anche all’estero – sostengono sia l’unico calciatore del mondo avvicinabile a Ronaldo. Che però era un fenomeno (la f in questo caso ci va minuscola) paranormale, un nuovo prototipo di atleta, di fuoriclasse, di essere umano. Il fatto che Del Piero fosse arrivato a quel livello, e che lo avesse mantenuto per un anno intero, lo proietta in una dimensione nuova: quello della star globale, dell’idolo che va oltre la Juve e che sta nelle camerette – cioè sui poster – di ragazzi e ragazze che abitano a Torino, a Rovigo, a Viterbo, a Caserta, a Trapani, ma anche a Birmingham, Osaka, Brisbane. La sua carriera proseguirà in modo eccellente, sì, ma decisamente più altalenante e più contorto rispetto a quella stagione magica. Eppure il ricordo di quando Del Piero distrusse il Monaco – dopo averlo fatto con molte altre squadre, nel corso dell’anno – è rimasto appiccicato alla memoria di chi c’era. E anche di chi l’ha “studiato” in seguito. Era davvero impossibile non innamorarsi di lui. (Alfonso Fasano)

Bari-Juventus, 2001

Il 18 febbraio 2001 si gioca Bari-Juventus, e Del Piero è inerme. O meglio, come mormorano dappertutto, è «finito». Non si è ripreso dall’infortunio al crociato che a novembre del 1998 ne ha stroncato la parabola di predestinato, ragazzino fatto d’etere a cui riusciva tutto: non è più il cartone animato che segna a ripetizione a giro in Champions League; in un brutto pareggio con il Brescia, mesi prima, si è incartato da solo. Non salta l’uomo, non segna. Ha appena firmato un contratto miliardario ma quella firma è una condanna, un motivo di pressione in più. E poi non piace alla gente: non gli si perdona il disastro nazionale di Euro 2000, ma gli stessi tifosi bianconeri, a cui quell’aria senza macchia non ha mai davvero fatto sangue, l’hanno lasciato solo. Il problema è nelle gambe e in testa e sembra irrecuperabile. È sempre difficile stabilire che processi mentali s’inneschino qui, ma forse qualcosa si muove: pochi giorni prima è morto il padre, «il dolore più grande della mia vita». A Bari parte in panchina, Ancelotti lo mette dentro dopo un’ora per sbloccare lo 0-0, ma nessuno ci crede. Serve un colpo d’aristocrazia, di quelli da purosangue, che non sa più fare – in campo c’è pure Zidane, magari lui?

E invece è un altro. All’81esimo è in area, con una finta sparisce dalla vista di Neqrouz (e la mimica del corpo del difensore dice che, davvero, gli sparisce davanti), poi con un tocco sotto, a pallonetto, scavalca Gillet in uscita. È gol. Non è un doppio passo pulito, è sporco, è «un’altra cosa»: trasmette un’emozione, racconta una storia. Che passa per i suoi movimenti pesanti impacciati, di chi compie un gesto tecnico che fino a tre anni prima avrebbe fatto con una disinvoltura sconvolgente e oggi lo mette faccia a faccia con i limiti che il nuovo corpo gli impone. E lui, un po’ goffo, si accetta, si adatta e li supera. Piange, non si sa di gioia o di malinconia. Quando ho scritto un libro su di lui, ero ossessionato dal capire quand’è che la gente avesse cominciato ad amarlo così tanto. Penso che sia questo momento qui: quando s’è tolto i panni del supereroe, ed è rinato come uno di noi. (Patrizio Ruviglioni)

Messico-Italia, 2002

Un guizzo di testa, l’indice sul labbro e poi alto in cielo. 13 giugno 2002: un altro gol per papà Gino, scomparso da pochi mesi, entra negli schermi di tutta Italia. È anche il primo di Alessandro Del Piero a un Mondiale. Capace di trasformare la vergogna di un fiasco – l’eliminazione ai gironi – nella rabbia di un popolo per la morena ingiustizia. Una catarsi, per Alex. Che all’occorrenza non sfodera una pennellata delle sue. Ma un tocco galeotto, sul filo del fuorigioco: l’aveva in canna da due anni. «Mi sento colpevole», diceva, la 10 sulle spalle anche in azzurro quando i suoi errori davanti a Barthez furono l’anticamera della beffa europea. Tre passi indietro, poi la gloria: da lì in poi Del Piero sceglie il 7, il suo numero al tempo dei Pulcini, e se lo terrà stretto oltre il contropiede più iconico della storia del nostro calcio. Prima però andava inaugurato. Senza Messico, niente Dortmund. (Francesco Gottardi)

Juventus-Piacenza, 2003

I gol di tacco sono belli come la soluzione di un problema geometrico: questa linea deve essere lunga tanto così e questo angolo deve misurare tanto cosà, se i conti tornano è un gol. Come tutti i problemi di geometrie (come tutti i problemi in generale) anche i gol di tacco si dividono in difficili, più difficili e difficilissimi. E poi ci sono quelli quasi impossibili, per risolvere i quali bisogna ricorrere sì agli strumenti teorici ma anche al guizzo creativo. Nella sua carriera Alessandro Del Piero ha segnato diversi gol di tacco – uno, bellissimo e stranissimo, anche in un derby con il Torino – ma ce n’è uno particolarmente impressionante perché non è nemmeno propriamente un gol di tacco, lo si definisce così in assenza di un nome proprio per il gesto tecnico in questione (non è questa, alla fine, la grandezza di un calciatore? La capacità di fare cose per le quali non esistono ancora le parole). Lo segnò nelle stagione 2002/2003, in un giorno importante: quello della prima partita della Juve orfana di Gianni Agnelli, morto due giorni prima.

Quello di Zambrotta, alla fine, era un banalissimo cross dalla trequarti campo, quelli che spesso vengono respinti dalla difesa, la palla torna sulla trequarti, il possesso di nuovo degli avversari, e si ricomincia tutto daccapo. Stavolta però la palla passa, la difesa del Piacenza ha un buco al centro in cui si infila, quatto quatto, Del Piero. È solo in mezzo all’area di rigore, la palla arriva forte alle sue spalle, è abbastanza alta da richiedere un primo stop con il petto. Ci vorrebbe troppo a far tutto e Del Piero lo sa, se seguisse il protocollo si ritroverebbe mezza difesa piacentina addosso. E allora, tanto vale aumentare ancora il vantaggio tagliando i tempi: saltiamo lo stop, saltiamo il girarsi verso la porta, saltiamo il caricamento del tiro e il tiro stesso. Del Piero fa tutto in un gesto: breve rincorsa, salto in alto, la gamba destra si stende in avanti, il piede si piega in modo da toccare il pallone con quella curva che trasforma il tacco in pianta del piede, tutto quasi senza nemmeno guardare il pallone né il portiere. Ne viene fuori un pallonetto che si gonfia e sgonfia come un soufflé: gol. Come lo chiamiamo questo, adesso? È un tiro al volo? Un lob? Un tacco volante? Ancora, a più di vent’anni di distanza, non ci siamo decisi, non abbiamo trovato la parola giusta davvero. E alla fine, non è questa la grandezza dei calciatori? Lasciarci senza parole, anche dopo una vita. (Francesco Gerardi)

Milan-Juventus, 2005

L’8 maggio 2005 fa già caldo e a quattro giornate dalla fine del campionato Milan e Juventus sono a pari punti. A San Siro alle 15 c’è un bel sole ad aspettare una partita che è uno spareggio per lo scudetto. Del Piero ha già trent’anni e più di qualche infortunio nelle gambe. Al 27esimo fa una giocata da ala ma con il passo di un trequartista sudamericano. Insegue un pallone sul lato corto dell’area, punta Gattuso e va sul sinistro per crossare ma il cross viene respinto. La palla schizza in cielo in verticale e riscende velocissima. Del Piero fa la scelta più pragmatica, decide di colpirla al volo anziché controllare un pallone scomodo e pesate in poco spazio. Ma lo fa con un’intuizione, fa la scelta di un artista. Si alza in rovesciata e la rimanda sulla testa di Trezeguet senza guardare: è l’assist per l’unico gol della partita. Se l’hanno chiamato Pinturicchio, un motivo dev’esserci. (Alessandro Cappelli)

Germania-Italia, 2006

Se è vero che l’importante non è quello che trovi alla fine della corsa ma quello che provi mentre corri, come diceva il poeta in un film uscito proprio quell’anno, allora come sarebbero andate a finire le loro corse al Mondiale 2006 Simone Barone e Alessandro Del Piero lo sapevano già, in cuor loro. Racconteranno qualche anno più tardi: «Correvo, correvo e dentro mi dicevo: non me la dà, non me la dà…» (Barone); «Cosa pensavo durante quella corsa? Non pensavo a niente, pensavo solo ad arrivare in fondo. Cercavo di mandare dei segnali energetici a Gilardino, in maniera tale che potesse riuscire a vedermi» (Del Piero). L’ultimo Mondiale vinto dall’Italia è stato un po’ il Mondiale delle corse: si è aperto con quella di Vincenzo Iaquinta per superare Richard Kingson, il portiere del Ghana, nella partita inaugurale e si è chiuso con la corsa liberatoria di tutti quelli d’azzurro vestiti dopo il rigore della vittoria realizzato da Fabio Grosso. In mezzo ci sono state due corse memorabili, uguali nell’intenzione ma diverse nell’esito, e la corsa di Del Piero dopo il gol è continuata per molti secondi ancora, «una corsa pazza, che cambia direzione tutto a un tratto come se fossi stato attirato da una calamita». In sottofondo, un’ode si alzava: «Chiudete le valigie! Andiamo a Berlino! Andiamo a Berlino! Andiamo a prenderci la coppa!». (Francesco Caligaris)

Real Madrid-Juventus, 2008

Quasi tutti i gol di Del Piero funzionano, strutturalmente, come le canzoni pop. Hanno un hook (un gancio) accattivante, che ha lo scopo di acchiappare all’amo lo spettatore, elementi famigliari e riconoscibili come un ritornello, e infine qualcosa di nuovo, di mai sentito (né visto) prima. I gol, nella notte del Bernabéu del 5 novembre 2008, sono due. Sulle tribune sono in 71mila, tra di loro c’è Diego Maradona, e al secondo minuto di recupero di quella partita si alzano tutti in piedi per lui. Del Piero fa un giro attorno a sé stesso, poi accenna un inchino. Se quella sera eri un bambino, come me, non hai capito la meccanica di quell’emozione, di come gli accordi si sono connessi tra loro per comunicare con parti recondite della tua anima, ma sei stato in grado di capire il sentimento. La standing ovation del Bernabéu rientra tra le Greatest Hits di Del Piero. E quel suono ti è rimasto impresso nel cervello, come fanno le canzoni, quando diventano parte di te. (Alberto Neglia)

Juventus-Atalanta, 2012

Prima della sostituzione, prima del giro di campo e della standing ovation, prima delle lacrime nello spogliatoio, ricordo che c’è stato un breve momento della sua (pen)ultima partita con la Juventus in cui Alessandro Del Piero credo abbia percepito cosa ha rappresentato per almeno due generazioni di tifosi. E solo chi era allo stadio lo ha potuto notare. La palla era lontana e lui stava rientrando lentamente verso il centrocampo: a un certo punto l’ho visto alzare gli occhi e guardarsi a destra, poi a sinistra, poi ancora alle spalle, come se stesse cercando qualcuno o qualcosa. Mi sono chiesto per anni cosa gli fosse passato per la testa, al punto da arrivare a domandarmi se non mi fossi immaginato tutto: forse Del Piero si era sentito improvvisamente solo in mezzo a quella moltitudine che era lì solo per lui o forse si era concesso il lusso di “avere un po’ di paura”, come Totti qualche anno dopo in una situazione simile. Poi, però, ho capito: Del Piero non aveva paura, Del Piero non stava cercando nulla perché aveva già trovato tutto e può darsi che in quel suo guardarsi attorno, reale e immaginato poco importa, ci fosse tutto il senso di una carriera intrecciata alle vite quotidiane di milioni di persone, tutte apparentemente lontane tutte incredibilmente vicine. E se n’era reso conto lì quando tutto stava per finire e tutto stava per ricominciare, ancora una volta. Sostituzione, standing ovation, lacrime, sipario. (Claudio Pellecchia)