Che fine ha fatto la coscienza sociale dei calciatori?

Gli ultimi casi di Mazraoui e Kimmich, e un silenzio generale, dimostrano che i giocatori stanno facendo un passo indietro rispetto agli ultimi anni. E non è una buona notizia.

Solo due anni fa, nel dicembre 2022, andava in scena il Mondiale più politico di sempre. La fase finale della Coppa del Mondo era stata accompagnata da mesi di polemiche sulle violazioni dei diritti umani in Qatar, durante le qualificazioni alcune squadre erano scese in campo con dei messaggi che chiedevano il rispetto dei lavoratori migranti. E, appena prima del torneo, era scoppiato il caso della fascia arcobaleno del capitano dell’Inghilterra, vietata all’ultimo dalla FIFA per non urtare la sensibilità dell’emiro di Doha. Inoltre c’erano poi state le bandiere palestinesi, sventolate con orgoglio dopo ogni partita dai giocatori del Marocco, con un gesto che implicitamente tirava in causa sia il governo di Rabat che quello qatariota, da anni impegnati a distendere i loro rapporti diplomatici con Israele.

Oggi il calcio – o meglio, i calciatori – sembra avere preso una rotta completamente opposta. Negli scorsi giorni, in Inghilterra si è discusso molto della scelta di alcuni giocatori della Premier League di non aderire alle campagne contro l’omofobia: Sam Morsy dell’Ipswich Town si è rifiutato di vestire la fascia arcobaleno, mentre Noussair Mazraoui ha detto di «non sentirsi pronto» a indossare una giacca con i colori della comunità LGBTQI+. Il problema però non riguarda solo i giocatori musulmani o il tema dell’omofobia, ma si estende anche ad altri contesti. Un mese fa il tedesco Joshua Kimmich è arrivato inaspettatamente a sconfessare la protesta che lui e i suoi compagni della Nazionale tedesca avevano portato sul campo dei Mondiali in Qatar: «Esprimere posizioni politiche non è il nostro lavoro. Lo devono fare gli esperti. Abbiamo cercato di esprimerci politicamente e questo ha tolto un po’ di gioia al torneo».

Con quest’ultima frase Kimmich è sembrato riferirsi alle critiche che hanno colpito la Mannschaft dopo i Mondiali: la Germania ha ricevuto grande credito per il suo gesto politico, ma ha poi perso il match d’esordio contro il Giappone ed è stata eliminata al primo turno. Esporsi significa, appunto, compromettersi: se sei un calciatore e parli di tematiche sociali, sicuramente risulterai divisivo (altrimenti, non avrebbe gran senso parlarne), e se i risultati sportivi non ti daranno ragione qualcuno lo userà per attaccarti. Pensa al calcio, non alla politica. Vale per i tedeschi ma anche per Khvicha Kvaratskhelia, che sostiene le proteste in piazza in Georgia; o per Marcus Rashford, che nel 2020 aveva contestato il governo conservatore britannico per i tagli agli aiuti per i poveri. C’è questa infantile illusione che l’atleta debba (e possa) pensare unicamente al proprio lavoro, che nella sua vita non possa esserci spazio per altro pensiero che non sia l’incontro che deve disputare, e di conseguenza che la sua esistenza non ruoti attorno ad altro che non sia la soddisfazione del nostro interesse di tifosi.

Ovviamente è così solo nel momento in cui i risultati ottenuti non sono soddisfacenti. Pep Guardiola è stato di gran lunga l’allenatore più vincente dell’ultimo decennio con il Manchester City, e nessuno si è mai permesso di accusarlo di distrazioni politiche quando ha indossato la felpa di Open Arms e ha parlato in favore dei diritti dei migranti. Sono dunque critiche pretestuose, ma che evidentemente lasciano un segno, se Kimmich si è sentito in dovere di fare un passo indietro. In un clima di feroce conflitto politico, è normale che qualcuno possa pensare che, piuttosto di dover subire critiche ingenerose e spesso offensive, sia meglio stare zitti. Quando la Nazionale femminile degli Stati Uniti è stata clamorosamente eliminata agli ottavi nei Mondiali del 2023, diverse giocatrici sono state vittime di abusi online per via delle loro note posizioni femministe e pro-LGBTQI+. E a questi attacchi si sono uniti anche i media conservatori. «Molte delle nostre giocatrici erano apertamente ostili all’America», aveva scritto Donald Trump su Truth. «Woke significa fallimento. Bel colpo Megan [Rapinoe, ndr], gli Stati Uniti stanno andando all’inferno!».

Un vecchio adagio recita però che puoi anche non interessarti di politica, ma di sicuro sarà la politica a interessarsi di te. Se oggi sembra che i calciatori stiano tornando a essere piuttosto cauti sul proprio posizionamento in pubblico sui temi sociali, i dirigenti del pallone sono più legati che mai col potere politico. La FIFA di Gianni Infantino è diventata un comitato d’affari con ramificati interessi geopolitici: nei giorni scorsi il capo del calcio mondiale – che già aveva difeso a spada tratta i crimini della monarchia di Doha – ha presentato il Mondiale per Club della prossima estate facendo intervenire Donald Trump con un videomessaggio e facendo aprire il sorteggio da sua figlia Ivanka e da suo nipote Theodore. È lo stesso Trump a cui, all’indomani della rielezione a Presidente degli Stati Uniti, Infantino aveva fatto i propri auguri su Instagram: non era mai successo che il capo della FIFA celebrasse l’elezione di un politico. E mercoledì prossimo Infantino assegnerà ufficialmente i prossimi Mondiali a due monarchie assolute molto ricche e influenti: il Marocco (insieme a Spagna e Portogallo) e l’Arabia Saudita.

Non c’è mai stata una vera e propria epoca dell’impegno sociale da parte degli atleti, ma piuttosto oasi più o meno grandi, sparpagliate nel tempo e influenzate da contesti specifici. Sócrates proveniva da una famiglia politicamente consapevole, aveva studiato all’università ed era maturato in un ambiente di contestazione verso il regime brasiliano. Un caso raro, perché al contempo in Europa la generazione più politicizzata di sempre – quella figlia del Sessantotto – produceva ben pochi frutti nel mondo del pallone: Paolo Sollier, Paul Breitner, e poi quasi nulla. Quando giunsero i Mondiali della Vergogna di Argentina 1978, gli attivisti che cercarono il contatto con alcuni calciatori famosi si trovarono di fronte a disinteresse e superficialità. Per quanto le leggende – del tutto infondate – riportino che figure del calibro di Cruijff e Breitner disertarono il torneo per protesta, un solo giocatore denunciò pubblicamente la situazione dei desaparecidos: il francese Dominique Rocheteau.

Un’immagine che sembra tratta da una vita fa: i giocatori di Arsenal e Man City che si inginocchiano prima di una partita, per solidarizzare con il movimento Black Lives Matter (Alex Pantling/Getty Images)

Ma gli ultimi trent’anni hanno raccontato una storia diversa. A partire soprattutto dalla Francia della seconda metà degli anni Novanta, i calciatori hanno iniziato gradualmente a prendere coscienza del proprio ruolo sociale. All’epoca erano i giocatori della selezione transalpina che difendevano il multiculturalismo della loro squadra, autentico specchio del paese, dagli attacchi demagogici di Jean-Marie Le Pen. In seguito abbiamo visto sempre più spesso sportivi schierarsi contro il razzismo e, più di recente, alcuni hanno anche parlato del cambiamento climatico, dei diritti umani, della repressione, della lotta all’omofobia. Una tendenza che faceva ben sperare, ma che al momento pare essersi infranta contro lo scoglio del Mondiale in Qatar. Il fallimento del boicottaggio ha messo i contestatori davanti a un fatto compiuto, quello della totale impotenza davanti alle decisioni dei dirigenti dello sport.

Un’impotenza che ritroviamo nell’espansione dei Mondiali verso paesi illiberali (fino all’arrivo di Infantino alla FIFA, nel 2016, solo due coppe si erano disputate sotto delle dittature: da allora ce ne sono state altre due, e tra Marocco e Arabia Saudita questa cifra raddoppierà nei prossimi dieci anni) ma anche nell’incapacità di contrastare il continuo aumento del numero di partite stagionali, con conseguenti problemi di salute per gli atleti. Ridotti a meri attori passivi della volontà divina di UEFA e FIFA, i calciatori si stanno richiudendo in loro stessi. Anche le prese di posizione in favore del popolo palestinese nell’ultimo anno sono state rare tra i giocatori, e per lo più limitate ai paesi musulmani, dove sostenere questa causa è meno problematico. Campioni noti come Mohamed Salah e Achraf Hakimi, che in passato non avevano avuto timore di schierarsi sul tema, sono stati accusati dai loro tifosi per essere rimasti in silenzio.

In un senso più ampio è però tutto l’attivismo politico a conoscere una fase di crisi e marginalizzazione: fuori dai campi di calcio, schierarsi coscienziosamente e coerentemente su certi temi non è mai stato così difficile quanto oggi. Le nostre società, in particolare in Occidente, sono preda di una crescente confusione politica. Prendere posizione non ti espone solamente agli attacchi di chi non la pensa come te, ma anche al giudizio critico sulle tue possibili contraddizioni: basta pensare a come Jordan Henderson nell’estate del 2023 è riuscito in pochi giorni a distruggere la propria reputazione di alleato della comunità LGBTQI+ barattando il suo impegno civile per sei mesi in Arabia Saudita (pagati 15 milioni di euro). Il guaio dello schierarsi è che poi devi mantenere la posizione che hai occupato. Non stupisce allora che le persone, specialmente quelle più in vista, preferiscano sottrarsi a tutto ciò.

Questo può garantire una vita un po’ più tranquilla, ma non è una soluzione. Gli atleti, per ciò che rappresentano, sono implicitamente strumenti di soft power: il loro lavoro alimenta una macchina economica che le Federazioni possono occasionalmente appaltare a Paesi autoritari; le loro prestazioni possono essere sfruttate come armi di consenso dai governi; hanno addosso gli occhi di milioni di persone e, che lo vogliano o meno, i loro gesti impattano trasversalmente su di esse, travalicando differenze di genere, etnia, lingua, religione, età e classe sociale. Se non accettano il proprio ruolo politico, qualcun altro glielo imporrà dall’alto. «Penso sia sbagliato che i giocatori debbano concentrarsi solo sullo sport e chiudere gli occhi davanti al resto del mondo», ha detto pochi giorni fa Toni Kroos all’edizione tedesca di Sports Illustrated. «Non siamo solo calciatori, ma anche persone». E, in quanto tali, la politica ci investe tutti e tutte.