Prima che un podcast, anzi il podcast dei record (oltre 13 milioni di ascolti su Spotify, più di 240 milioni di visualizzazioni su YouTube, oltre 14 milioni di like su TikTok e 228 mila follower su Instagram), il BSMT è un luogo. Un basement, appunto, un seminterrato il cui indirizzo viene mantenuto segretissimo, lo spazio dove Gianluca Gazzoli ha creato un prodotto riconosciuto, e riconoscibile, che lui stesso definisce come un piccolo miracolo. «È un po’ la sintesi di tante cose che mi sono successe nella vita», dice. Il sogno americano in Italia, lo scantinato come analogia del garage per Google, il simbolo di un desiderio coltivato per anni e diventato marchio, in grado di attrarre i personaggi più disparati, come Valentino Rossi, Roberto Saviano, Jared Leto, Renato Zero, Cesa re Cremonini, Federico Dimarco, Armand Duplantis, Fabio Fazio. È qui che Gianluca Gazzoli ci accoglie, in uno spazio che è testimonianza vivente di quello che succede, con il tavolone e i microfoni, ma soprattutto con cimeli, memorabilia e quant’altro, lasciati dagli ospiti che via via si avvicendano nelle puntate di Passa dal BSMT. «Avevo in testa uno spazio che potesse essere un mio ufficio e parallelamente uno spazio dove poter fare delle lunghe chiacchierate», dice Gazzoli. «Volevo andare avanti per questa strada, investire tempo, risorse, fare lo step successivo. La prima volta che ho visto il basement, ho sentito un’energia giusta, sana. Mi son detto: il posto è questo».
Ⓤ: Come nasce l’idea di un podcast?
Mi sono reso conto che il mondo della comunicazione, dei media, stava cambiando, e ce n’era un altro che stava spingendo e che partiva dal basso. Ho iniziato a osservare quello che stava succedendo, soprattutto in America, con l’emergere dei podcast, con il fatto che presentatori, content creator, cominciavano a diventare editori di se stessi. Così ho cominciato a sperimentare i contenuti che volevo fare sul mio canale Youtube, mi sono reso conto che quello che facevo online impattava molto di più rispetto ai lavori per altri media. Ho deciso di investirci tutto, di fare all-in, e di vedere poi cosa sarebbe venuto fuori.
Ⓤ: E cosa è arrivato?
La mia idea era creare qualcosa che fosse sostenibile sul lungo periodo. Questo me l’hanno insegnato sia lo sport che la radio: ci vuole tanto tempo prima che qualcosa entri nelle persone, che diventi un’abitudine, che impatti in qualche modo sulla vita della gente. Ho deciso di andare avanti per un anno senza guardare minimamente i numeri, ma semplicemente seguendo quella che era la mia visione, il mio metodo, proprio come uno sportivo che si applica nell’allenamento. Abbiamo iniziato a martellare, a spingere in questa direzione, e i risultati sono arrivati più velocemente rispetto a quanto pensassi. Hai parlato di impatto.
Ⓤ: Qual è il valore che secondo te rappresenta al meglio Passa dal BSMT e che esercita più influenza sugli utenti?
L’autenticità, dettata un po’ da come è nato tutto questo. È un valore che lo percepisce sia chi arriva qua, sia chi ci ascolta. Quello che succede qui è una conversazione vera, come la farebbero due amici, sia nelle cose belle che vengono raccontate, sia nelle cose un po’ più profonde. Non mi piace la ricerca pruriginosa, nel voler cercare di tirare fuori qualcosa a tutti i costi, anche se poi spesso escono notizie, scoop, cose che non erano mai emerse. Questa ricerca di credibilità, di mantenere un focus che sia sempre lo stesso, secondo me fa la differenza. Mi dà sempre da pensare che la gente, anziché guardare un film con un budget da milioni di dollari, preferisce guardare noi, seduti in uno scantinato, davanti a tre telecamere e due microfoni.
Ⓤ: Tra i tuoi ospiti, ci sono sportivi, cantanti, personaggi televisivi, imprenditori. Cosa tiene tutto insieme?
Mi ispiro a tante cose, a un certo tipo di linguaggio che ho visto in altri podcast americani, in programmi televisivi o radiofonici, come Le Invasioni Barbariche, Che tempo che fa, Deejay chiama Italia. Allo stesso tempo è un linguaggio che poi diventa totalmente mio, evoluto tramite un approccio più moderno, più fresco, e che possa funzionare su altre piattaforme. Quello che ho sempre cercato è essere trasversale, unire più mondi, ma al tempo stesso mantenere tra tutti gli ospiti un filo conduttore che li unisca. Dopo tre anni la figura “da BSMT” è già abbastanza identificata: il filo conduttore è una storia che sia di ispirazione, un personaggio che ha sudato tanto per raggiungere i suoi risultati, attraversando momenti di grande difficoltà prima di arrivare a certi traguardi. Quella puntata è di ispirazione? C’è qualcuno che dopo averla vista chiuderà il telefono o il computer e si sentirà meglio? Se la risposta è sì, allora è una puntata da fare.
Ⓤ: Questa idea del duro lavoro, del fare sacrifici, del crederci sempre è un leitmotiv della letteratura sportiva. Ed è il tema alla base del tuo nuovo libro, Anche quando nessuno ci crede. Sottotitolo: La rivincita degli underdog.
Quando parti da “sfavorito” hai due strade: o buttarsi giù, o dimostrare cosa si è in grado di fare. E questo per me è una benzina potentissima. Affrontando questo percorso mi sono reso conto che il partire sfavoriti può essere realmente un dono, nel senso che poi ti porta ad avere una soddisfazione impagabile quando raggiungi certi obiettivi. Tante volte gli sfavoriti hanno nuovi stimoli, una marcia in più, hanno dentro qualcosa. Tante puntate mi hanno fatto capire che chi ha fatto grandi cose spesso partiva da situazioni di questo genere.
Ⓤ: Lo sport è onnipresente nella tua vita. E anche nel tuo lavoro.
Le puntate con gli sportivi per me sono quelle in cui ho gli occhi a cuore. Perché per me nello sport c’è tutto, c’è la vita, i sacrifici per raggiungere un obiettivo, il fallimento o la sconfitta, e poi la rivincita. Il mio primo sport è stato il calcio, giocavo come attaccante e mi piaceva, non me la cavavo male. Nel frattempo a scuola giocavo a basket, e c’era qualcosa che mi piaceva, quel mondo americano, tutto mi affascinava tantissimo. Erano gli anni di Kobe, di Shaq, che era un po’ il mio riferimento visto che giocavo sotto canestro. Avevo iniziato nella squadra della scuola, ero abbastanza portato e pian pianino ho cambiato varie squadre fino a giocare nella SocialOsa. Tanti anni dopo, conosco Kareem Abdul-Jabbar, che quando era passato in Italia aveva giocato nella palestra della SocialOsa, e la prima cosa che gli dico è: abbiamo giocato nella stessa palestra!
Ⓤ: Mentre giocavi per la SocialOsa, qualcosa va per il verso sbagliato.
A 15 anni ho avuto un problema al cuore e ho dovuto smettere. È stato probabilmente il momento peggiore della mia vita. Ho avuto due o tre anni bui perché il non poter giocare mi faceva troppo male, e quindi avevo cancellato completamente dalla mia vita non solo il basket, ma tutto lo sport in generale. Per anni non ho più voluto seguire niente, perché il solo vedere gli altri che giocavano mi faceva soffrire. Poi crescendo ho capito che potevo comunque fare sport, sono tornato sui campetti, sono tornato ad appassionarmi di nuovo alla NBA, che era la mia passione fin da quando ero bambino. E allo stesso tempo mi dico: forse doveva andare esattamente così, perché poi mi sono ritrovato a vivere delle esperienze che probabilmente non avrei mai fatto se avessi continuato con il basket. Ho giocato uno contro uno con Giannis Antetokounmpo, ho avuto la possibilità di conoscere dei miei miti, di essere in prima fila a una partita NBA da ambassador della lega… qualcosa di impensabile.
Ⓤ: Gli sportivi che apprezzi di più?
Alex Del Piero, che poi è l’unico riferimento calcistico che ho voluto all’interno del basement (c’è la sua maglia incorniciata, nda). Sin da bambino è sempre stato il mio idolo, avevo la camera tappezzata delle sue foto: era fortissimo, competitivo, rappresentava la leadership ma senza essere scorretto, avendo il rispetto di tutti. Quello era il tipo di carriera che avrei voluto avere io nel mio lavoro. LeBron James, perché l’anno in cui mi hanno operato al cuore era lo stesso in cui lui è entrato a giocare in NBA. Lui è stato sempre un’ispirazione, sta avendo una carriera incredibile, ha dovuto lottare con le pressioni fin da subito ed è l’unico giocatore ad oggi che ha mantenuto tutte le promesse. E poi è uno che ha restituito tanto fuori dal campo, non limitandosi a essere un campione soltanto sul parquet. E poi Valentino Rossi, ogni tanto riguardo il video di quando è passato al BSMT e mi dico “ma davvero è successa questa cosa?”. Vale è uno di quelli che ha cambiato lo sport, ha avuto una carriera da vincente ma anche un atteggiamento, un carisma tale da far appassionare un intero Paese a uno sport per così dire minore.
Ⓤ: La fascinazione per il mondo americano è evidente, la si percepisce all’interno di quello che fai da tanti punti di vista.
Ogni volta che vado negli States mi arriva una botta di energia, una sensazione che tutto può succedere. Perché è così, mi sono davvero ritrovato a fare delle cose che ritenevo impensabili. Lo scorso anno ho girato delle puntate a Los Angeles, e quando arrivi hai l’idea di fare una cosa e poi ne escono fuori mille. È un Paese per certi versi difficile ma anche meritocratico: se vedono che fai delle cose, che vali, ti rispettano, capiscono il potenziale, molto più che qui in Italia. Quelli che fanno il mio lavoro negli States sono milionari, è evidente che ci sia un mercato diverso. Mi sono ritrovato con personaggi enormi che non solo mi stavano a sentire, ma che addirittura sono stati decisivi nel far nascere delle cose. Penso a Jared Leto che è venuto qui ed è impazzito, e pur avendo fatto tantissime interviste l’unica cosa che ha postato sui suoi social è stata la sua puntata del BSMT.
Ⓤ: Appunto, i social: ti hanno cambiato la vita.
Sono stati fin dall’inizio la mia possibilità. Quella cosa che, se usata nel modo giusto, ti può veramente cambiare l’esistenza. Per me sono stati l’unico modo per cercare di far vedere quello che credevo di saper fare in un mondo che invece non mi si filava di striscio. Su questo mi ha ispirato tanto Casey Neistat, uno youtuber che ha cambiato davvero tutto. Un giorno gli ho scritto su Twitter e lui mi rispose. E questo per me era inconcepibile, per me lui era tipo un supereroe. Quindi alla fine ti accorgi che tutti sono raggiungibili, che puoi arrivare veramente a chiunque, che puoi fare quello che vuoi, e che tutto questo può cambiare letteralmente la vita delle persone. In questo mondo dei social, delle piattaforme, ci ho sempre creduto. Ancora oggi sono sempre molto attento a quello che succede sui social, un po’ perché fa parte del mio lavoro, ma anche perché è un tipo di comunicazione che mi appassiona, che mi porta a fare mille ragionamenti, a entrare nelle dinamiche di quello che succede.
Ⓤ: E certamente avere una popolarità sui social ti mette anche di fronte a situazioni spiacevoli, a commenti antipatici.
Ho imparato che il momento in cui arrivano gli haters è il momento in cui stai spaccando davvero, in cui stai facendo la differenza. È brutto vedere come in Italia nel momento in cui fai successo, o quello che fai funziona, automaticamente gli altri tendono a buttarti giù, a screditare quello che fai. C’è chi dice: vabbè, com’è possibile che arrivino questi ospiti, chissà cosa c’è dietro, chissà chi è il padrone di Gazzoli. A me questa roba mi manda fuori di testa, vuol dire che non si è capito tutto quello che faccio. Purtroppo è più comodo pensare che ci sia qualcosa dietro che accettare che ci sia stato un duro lavoro alla base di questo. Oppure quando ci si sofferma sul fatto che io reagisca a delle cose, magari dicendo “ok, figata”, io dovrei stare lì a spiegare che quella cosa serve a dare ritmo, per arrivare alla confidenza all’intervistato, per fare quel clic che lo porta a raccontare una cosa che non è mai stata detta da nessuna parte. Ed è successo, con ospiti che hanno fatto milioni di interviste, che hanno carriere lunghissime. Ma sono felice che tante persone, molte più di quelle che pensavo, abbiano colto il significato di quello che sta succedendo qui, l’idea di fare dei contenuti non urlati, dove non ci sia a tutti i costi la voglia di fare sensazione.
Ⓤ: C’è qualche personaggio che vorresti avere fortemente al BSMT?
Sicuramente Del Piero, e lui lo sa che mi piacerebbe molto. Ma la cosa bella è che fin dal giorno zero non mi sono mai posto limiti sugli ospiti. Magari gli stessi che arrivano oggi sono gli stessi che invitavo due anni e mezzo fa. E quindi oggi non ce n’è uno che mi dico: è impossibile. Sono già successe delle cose che nella mia testa erano impossibili, quindi perché porci limiti.
Ⓤ: Le puntate che più ti sono rimaste dentro?
Quando hai questo tipo di chiacchierate entri in connessione con una persona, stabilisci una forte empatia, tanto che poi succede che con degli ospiti nasca un vero e proprio rapporto di amicizia. Se si è creato questo tipo di connessione, vuol dire che la puntata è stata speciale. Ce ne sono state alcune così, per esempio quella con Valentino Rossi è stata devastante, per le cose che ha raccontato, per l’umanità con cui lo ha fatto. Quella con Paolo Bonolis è stata un’altra puntata clamorosa, che mi ha dato tanto, la puntata con Nerio Alessandri è diventata la preferita di molti, ha fatto numeri giganti, quasi di più di altri personaggi molto noti. E poi Roberto Saviano, Renato Zero… difficile sceglierne una, ma la cosa bella è che ciclicamente alcune delle frasi che mi dicono mi ritornano, perché magari succede una cosa e dico: ah, ecco che cosa voleva significare quella frase.