I calciatori non calpestano gli stemmi dei club per una forma di rispetto, ma è anche una strategia mediatica

Esultare sì, ma mai sopra i tappeti con i loghi societari. Un rituale sempre più frequente: questione di sportività, ma anche d'immagine.

Simulacri a bordocampo: il logo prima di tutto. Da diversi anni a questa parte, le grandi squadre – soprattutto in Liga e in Premier League – hanno moltiplicato la presenza dello stemma societario sotto forma di tappeto gigante nei dintorni del campo di gioco: vicino alle panchine, ai cartelloni pubblicitari, all’ingresso del tunnel degli spogliatoi. Più di un’effigie, un campo magnetico che tiene lontano i calciatori all’inverosimile. Tra scaramanzia e timore reverenziale. I video che si molteplicano su TikTok rasentano il ridicolo: Vini Jr. scavalca l’emblema del Real nel pieno di un’esultanza, Bellingham e all’epoca Cristiano Ronaldo, da avversari, evitano accuratamente quello dell’Atlético. Marcelo invece si dispera quando si rende conto di averlo appena calpestato. Manco fossero carboni ardenti.

Un rituale sempre più ricorrente, un trend sempre più virale. E i motivi sottostanti dividono il mondo del calcio stesso: tra chi acclama il rispetto dei colori, a prescindere da quali (parola di un grande ex come Nemanja Vidic, interpellato da L’Équipe) e chi invece, con profano buonsenso, ritiene che i tappeti esistano per essere calpestati. La tentacolare presenza delle telecamere ha poi moltiplicato le immagini a disposizione. Di partita in partita, di gol in gol, frame e inquadrature passano al vaglio polemico del pubblico di vasta scala. Ogni gesto si carica così di significato: i calciatori lo sanno – soprattutto quelli di dimensione aziendale, con maniacale cura dei dettagli mediatici – e si comportano di conseguenza. Quando allora Mbappé sceglie di non camminare sopra il logo del Manchester City, sa che per questo verrà presto applaudito. O innalzato a esempio di fair play. Marketing e visibilità per due, club più giocatore. Fa comodo a tutti.

Tra i primi a salire alla ribalta, in questo senso, c’era stato Ronald Araujo. Nel 2022 il difensore del Barcellona segna contro l’Elche, corre verso gli spalti e nell’impeto emotivo del momento quasi non fa caso al logo blaugrana: all’ultimo secondo lo schiva però con un balzo felino, rischiando di infortunarsi alla caviglia. Questo e altro per la bandiera. «Sono un tifoso del Barça», ha spiegato poi Araujo, «rispetto moltissimo qualunque cosa lo rappresenti e per questo salterò sempre oltre il suo stemma». Ma come abbiamo visto, il principio si applica a prescindere dal club di appartenenza.

In tutto questo teatrino, che il calcio moderno ha contribuito ad alimentare, ci domandiamo allora la potenziale disperazione degli atleti negli altri sport. Dove il logo societario si trova a metà campo di un parquet o la “L” dei Lakers campeggia a ridosso del canestro: per scampare al vilipendio, in Nba dovrebbero volare. O smettere di giocare. Chissà perché non è mai successo, cestisti screanzati.

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