Era il 15 gennaio 2024, Barcellona e Real Madrid si affrontano finale di Supercoppa du Spagna allo stadio King Saud di Riyadh. Al minuto 10′ del primo tempo, quando Vinícius Júnior aveva già realizzato il gol del 2-0 in favore del Madrid, tutti erano lì a chiedersi quanto sarebbe finita male per il Barça. Tanto che, a fine partita, il 4-1 (3-1 all’intervallo con tripletta di Vinícius in 39 minuti) in favore della squadra di Ancelotti sembrava quasi un risultato accettabile, soprattutto se consideriamo che, nel secondo tempo i gol, del Real avrebbero potuto essere almeno altri tre. Quella partita costrinse Xavi a chiedere scusa ai tifosi in conferenza stampa per la sconfitta. E non tanto per il punteggio quanto, piuttosto, per una comune e diffusa sensazione di inadeguatezza al cospetto dei rivali di sempre. Un anno dopo, il 12 gennaio 2025, sembrava che tutto dovesse ripetersi: un’altra finale di Supercoppa, un altro gol del Real dopo pochi minuti – questa volta di Mbappé – e di nuovo la sensazione di una partita che gli scattisti del Madrid avrebbero deformato il Barça con la velocità delle loro furiose corse in verticale. Invece, tra il 22′ e il 39′, Lamine Yamal, Robert Lewandowski e Raphinha, hanno ribaltato l’inerzia tecnica e nervosa di una gara chiusa dal secondo gol del brasiliano arrivato all’inizio del secondo tempo. La stessa cosa è accaduta anche nell’ultima finale di Copa del Rey: la tranquillità con cui i catalani hanno assorbito i due gol in sette minuti del Real restituisce la dimensione raggiunta da un nucleo di giocatori che, tolti Dani Olmo e Wojciech Szczesny, è rimasto quello di gennaio 2024.
Flick e la cura dei dettagli
Come è stato possibile passare in così poco tempo da Xavi che quasi non sa da che parte guardare mentre fa pubblica ammenda a Yamal che dice, semplicemente, «il Real Madrid non può battere il Barcellona»? L’unico che potrebbe rispondere a questa domanda si chiama Hans-Dieter Flick, arrivato in Catalogna immerso nei dubbi – l’ultima esperienza sulla panchina della Germania si era conclusa con una dolorosissima eliminazione ai gironi al Mondiale 2022 – e diventato l’uomo di buon senso che, di fatto, ha permesso al Barcellona di tornare a essere il Barcellona. E in un modo contro-intuitivo, per altro: facendo accettare un modo diverso di essere unici e speciali attraverso la ricerca della normalità. Perché, al di là di un clamoroso record di 8-0 nelle finali e del numero di trofei che il Barca aggiungerà in bacheca al termine della stagione, questa trasformazione deve essere considerata una questione di vibrazioni, di sensazioni, di connessioni umane, di una quotidianità fatta di tanti piccoli dettagli (dall’abbigliamento all’
A guardarlo bene, il lavoro di Flick non ha riguardato solo il campo, la tattica, gli schemi o gli allenamenti pensati per prevenire gli infortuni e migliorare la fisicità e l’atletismo nei 90 minuti. Nell’ottobre del 2022, quando era ancora il commissario tecnico della Nazionale tedesca, proprio lui raccontò – in un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung – come il legame non sempre semplice che aveva con il padre lo avesse aiutato nella sua carriera di allenatore, soprattutto nell’intuire quando stava per verificarsi un cambiamento del contesto e, poi, nell’individuazione e nella gestione delle emozioni negative prima che queste possano trasformarsi in quelle crepe che alterano e poi distruggono poi l’equilibrio all’interno di uno spogliatoio dominato dall’ego dei grandi giocatori. I calciatori del Barcellona hanno perciò impiegato pochissimo tempo a familiarizzare con un uomo così rigoroso e allo stesso tempo così aperto al confronto e al dialogo, e che in quell’intervista disse di cercare ogni volta «di identificare e risolvere ogni conflitto il prima possibile»: a inizio settembre le testate internazionali avevano rilanciato in loop le dichiarazioni entusiastiche di Pedri (ancora a Mundo Deportivo) nelle quali Flick veniva descritto come un tecnico che sa «scherzare e parlare con noi giocatori», uno che «capisce ciò di cui abbiamo bisogno».
Superare una crisi
Questa qualità è emersa nei deliranti 41 giorni tra il 10 novembre e il 21 dicembre 2024, quando il Barcellona ha vinto appena tre delle nove partite disputate – perdendone quattro, di cui tre in casa contro Las Palmas, Leganés e Atlético Madrid – e ha riaperto una Liga che sembrava già virtualmente chiusa dopo il 4-0 al Bernabeu nel Clásico di fine ottobre: «Oggi sono triste perché non abbiamo nulla in mano nonostante abbiamo giocato una grande partita», disse Flick nella conferenza stampa dopo la gara contro l’Atlético. Subito dopo, però, il tecnico tedesco aggiunse: «Ma sono anche felice perché abbiamo anche dimostrato cosa vogliamo fare e in che modo vogliamo giocare. Per ora è questo tutto ciò che possiamo prenderci da questa gara in attesa di lavorare ancora più duramente fin dall’inizio del prossimo anno: non ci arrenderemo e torneremo». La sconfitta contro la squadra di Simeone era maturata a causa di una rete subita a un minuto dalla fine del recupero, quando addirittura otto giocatori di movimento erano sopra la linea della palla nell’attimo in cui Raphinha sbaglia il passaggio diretto a Pedri. Pochi istanti dopo, naturalmente, sarebbe partito il contropiede dell’Atleti.
La storia recente del calcio è piena di squadre giovani potenzialmente molto forti che hanno visto il proprio percorso di crescita infrangersi sul muro di risultati negativi arrivati in maniera inaspettata e casuale. E quella contro Simeone assomigliava tantissimo alla sconfitta che innesca la più classica delle crisi di rigetto, di quelle che si propagano fino a compromettere ogni aspetto della vita di squadra. Ma siccome Flick, come dice Pedri, sa cosa dire e quando dirlo, la crisi non c’è stata. Anzi: le 23 vittorie nelle successive 28 partite hanno mandato definitivamente in archivio il dibattito sulle persistenza di tutte quelle fragilità fisiche e caratteriali che avevano già condizionato la scorsa stagione. Addirittura oggi i blaugrana sono considerati, insieme al Paris Saint-Germain, la squadra che gioca meglio e la favorita naturale per la vittoria della Champions League.
E, proprio come a Parigi, dove gran parte del merito è ascrivibile all’opera di ristrutturazione culturale del club dalle sue fondamenta operata da Luis Enrique, anche a Barcellona si sta facendo strada l’idea che la semplificazione che Flick sta portando avanti sia esattamente ciò che serve in questo momento storico a un ambiente spesso prigioniero delle proprie sovrastrutture. Che non riguardano necessariamente gli aspetti tecnici o tattici della singola partita: «Sono orgoglioso della squadra, dello staff, di tutti quelli che lavorano a contatto con noi. Nello spogliatoio c’è una bellissima atmosfera: siamo un club che è diventato un po’ come una famiglia. Ed è grandioso vedere come i giocatori e lo staff siano connessi gli uni agli altri», ha detto Flick poco più di un mese fa, dopo aver vinto 4-2 al Wanda Metropolitano una partita che al 70′ il Barcellona stava perdendo 2-0; ci hanno pensato poi Lewandowski, Ferran Torres e Yamal a dare forma a quello che, secondo il tecnico tedesco, rappresenta «tutto ciò che vogliamo e dobbiamo fare durante le gare». Dall’Atletico all’Atletico, da Barcellona a Madrid: in poco più meno tre mesi, tutto è tornato al suo posto. Quasi come a voler chiudere un primo significativo cerchio, mantenendo la promessa fatta prima della sosta natalizia: non arrendersi, tornare.
Non solo la tattica
Fin dall’inizio della stagione sono stati scritti tantissimi articoli dove la chiave dei successi del Barcellona veniva individuata, di volta in volta, nell’ambizione e nel coraggio di una linea difensiva che si muove in avanti sempre e comunque, nella riaggressione feroce ed esasperata, nella centralità di Yamal in fase di rifinitura, nella scoperta di Raphinha come realizzatore d’élite, nella ricostruzione di Frenkie de Jong ormai definitivamente impostato come mediano di costruzione. A seconda del periodo cambiava anche la gerarchia e l’importanza di quelli che erano e restano aspetti di campo tangibili, visibili, reali, alla portata di tutti, e che si sono manifestati anche nella finale di Siviglia: l’aggressività di Cubarsí nella copertura della solita traccia in profondità su cui Bellingham voleva far scorrere un pallone diretto a Vinícius e che invece, dieci secondi dopo, finisce alle spalle di Courtois; Pedri e Yamal che si muovono come se il campo non avesse dei confini fisici entro i quali agire, alterando la comune visione dello spazio e del tempo con i loro passaggi laser che ridicolizzano ogni tentativo di copertura preventiva; Koundé che al 115′ di una partita giocata a ritmi folli, si mangia Brahim Díaz sull’anticipo e fa apparire Luka Modric un 39enne come tutti gli altri, e che poi va a segnare il gol più importante della sua vita; Szczesny che continua a dimostrare che quella di tornare è stata una delle migliori idee che abbia mai avuto nella sua divertentissima carriera.
Tuttavia, come spesso accade, il vero switch è avvenuto dietro le quinte, a livello di gestione personale e professionale di un gruppo che aveva la necessità di ripulirsi dalle scorie di un’annata talmente logorante e distruttiva da far passare in secondo piano la mancata conquista di un trofeo. Non a caso già ad ottobre su AS si parlava di un vero e proprio decalogo su cui Flick ha costruito la sua leadership, una credibilità tale da imporre una disciplina quasi militaresca e pretendere di più da chiunque indipendentemente dallo status di gregario o superstar. Anche l’essere riuscito a isolare la squadra quando sono tornate d’attualità le notizie sulla difficile situazione finanziaria del club può essere considerato lo specchio di come Flick sia riuscito ad accreditarsi come l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto, un riferimento umano prima ancora che tecnico in grado di mettere ordine nel caos: a inizio gennaio, quando la situazione di Dani Olmo sembrava essere arrivata un punto di svolta in negativo, a ogni intervista Flick non faceva che ripetere che tutto ciò che si poteva fare era preparare al meglio ogni partita, lasciando che fosse la società a occuparsi di tutto il resto.
E come dopo la partita con l’Atletico ha avuto ancora una volta ragione lui, quantomeno dal punto di vista pratico e delle conseguenze: se non c’era nulla che i giocatori potessero fare per risolvere qualcosa al di fuori del loro controllo, tanto valeva che si focalizzassero su tutto ciò che riguardava il campo, il lavoro, le partite. Come se ci si trovasse tutti in una sorta di maxi-ritiro che terminerà solo quando l’obiettivo sarà raggiunto. A cosa corrisponda davvero questo obiettivo, poi, è l’altra domanda cui può rispondere soltanto lui, soltanto Hans-Dieter Flick: l’allenatore che ha restituito il Barcellona al mondo prima che fosse troppo tardi.
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