Inter-Barcellona, la sera dei miracoli

Certe partite non si possono spiegare passando dalla tecnica o dalla tattica: bisogna parlare di forza emotiva, di lucidità, di intelligenza adattiva. Ed è così che è arrivato lo storico trionfo della squadra di inzaghi.

Quando Yann Sommer ha smanacciato via dalla rete un tiro meraviglioso di Lamine Yamal, un colpo da biliardo di interno destro destinato all’angolino più remoto della sua porta, beh, in quel momento lì tutti hanno capito: Inter-Barcellona 4-3 era destinata a finire nel pantheon ideale delle partite mitiche e indimenticabili. Quelle miracolose, quelle che restano impresse nel cuore di chi le vince, di chi le vive da appassionato neutrale e/o da spettatore disinteressato, persino di chi le perde. È una questione di pura narrativa, perché molte gare – soprattutto in Champions League – sono piene di tecnica in abbondanza, di tattica ai massimi livelli, di forza fisica ed emotiva in quantità mostruose, ma certe gare hanno qualcosa di più: una trama che riesce a cambiare da un istante all’altro, eroi attesi ed eroi improvvisati, capovolgimenti repentini ed esplosivi. In questo senso, basti pensare che il gol di Francesco Acerbi, minuto 92.42, è arrivato pochi istanti dopo che Lamine Yamal aveva colpito il palo sinistro della porta difesa da Sommer. E stiamo parlando davvero di istanti, non è un’iperbole.

Sommer ha fatto altre parate bellissime oltre a quella incredibile su Yamal, Acerbi ha giocato una partita enorme al di là del gol del 3-3, Thuram e Dumfries sono stati lucidissimi e decisivi nei momenti importanti. Degli elogi simili possono essere riversati su alcuni giocatori del Barcellona, ovviamente stiamo parlando di Yamal, di Raphinha, di Pedri, di De Jong. Ma ripetiamo: Inter-Barcellona 4-3 non si racconta, e quindi non si spiega, come una grande partita di calcio fatta di giocate individuali scintillanti, di azioni corali impregnate di armonia, di mosse e contromosse tattiche, di letture sbagliate o errori grossolani; Inter-Barcellona 4-3 è un romanzo pieno di tutto questo e poi riempito all’inverosimile di qualcosa di ineffabile, che sfugge al controllo ma che non è casuale.

Ed è per questo che, alla fine, ha vinto l’Inter. Ha vinto, cioè, la squadra più tosta, più quadrata, la squadra che è riuscita a interpretare la (doppia) sfida contro il Barça in modo meno lineare, adattandosi a ciò che succedeva in campo e tirando fuori l’energia ma anche la qualità che serviva per riprendere il risultato dopo essersi fatta riprendere. Sia all’andata che al ritorno. Certo, anche la fortuna ha avuto un peso significativo, abbiamo già detto del palo di Yamal poco prima del gol di Acerbi e il Barça ha avuto tante altre occasioni. Allo stesso modo, però, la rete di Mkhitaryan a Montjuíc – quella che sarebbe valsa il 3-4 – era stata annullata per un fuorigioco di pochi centimetri. E quella di Frattesi a San Siro, quella che ha riportato l’Inter in vantaggio, non è certo frutto del caso: lo strappo di Thuram, la sponda intelligentissima di Taremi, la finta e il tiro di Frattesi sono tutte intuizioni di alta scuola, non appariscenti e continue come quelle di Yamal, ma ugualmente efficaci.

La sintesi

In fondo la differenza tra Inter e Barcellona è stata ed è proprio questa: la squadra blaugrana ha tessuto per due partite intere la sua tela, una tela pregiatissima e imprevedibile, a tratti accecante, ma a un certo punto (diciamo dal gol di Acerbi in poi) quella tela si è rivelata troppo corta perché sostenesse pure il peso di un altro svantaggio, arrivato per altro dopo che i giocatori di Flick avevano già assaporato il gusto di una qualificazione alla finale di Champions League. È come se al Barça, dopo due partite affrontate ad altissimi livelli, fosse mancata la spinta che occorre per andare oltre, oltre gli ostacoli, oltre la fatica, oltre la propria identità tattica. Per dirla in poche parole: il Barça ha giocato 210 minuti di calcio radicale e bellissimo e divertente, ma non ha mai dato l’impressione di sentirsi – e quindi di essere – una squadra in missione eroica. L’Inter, invece, ha restituito esattamente questa sensazione. Anche quando – nel secondo tempo del match di San Siro e per lunghi tratti della gara al Montjuïc – ha finito per subire l’enorme pressione esercitata dal Barcellona, anche quando era praticamente eliminata e invece poi ha saputo rimettersi in piedi. È servita tanta fortuna, è servita tanta forza emotiva, ma c’è stata anche qualità e preparazione. Lo ha detto anche Simone Inzaghi nel postpartita: «Dopo la gara d’andata avevamo chiaro tutte le cose che dovevamo mettere in campo. Abbiamo cercato di giocarcela con le nostre armi e con le nostre qualità».

Poi, però, anche Inzaghi è stato costretto ad andare oltre la disamina puramente tattica, a trovare parole che rimandano ad altre sfere, alla mistica di certe partite: «C’è stata una grandissima unione con la nostra gente, anche perché con il cuore siamo andati oltre ogni ostacolo». Ecco, piaccia o non piaccia questo è il senso di certe vittorie, di certe partite mitiche e indimenticabili. Il fatto è che ci sono delle sere semplicemente, sono inspiegabili. Proprio come i miracoli.

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