È sbagliato crocifiggere Simone Inzaghi, anche dopo la finale di Champions persa contro il PSG

Il tecnico dell'Inter avrà anche commesso i suoi errori, ma una serata disastrosa non cancella quanto di buono fatto nel corso della stagione. E degli ultimi anni.

Dopo aver preso la medaglia del secondo posto, Simone Inzaghi è rimasto solo, con il volto di chi ha visto un fantasma. Chissà se stava ragionando sul suo futuro, sulla possibilità di ritornare a così alto livello con un gruppo diverso o sul fatto che avesse potuto in qualche modo evitare la peggior sconfitta nella storia delle finali di Champions League. Premettiamolo subito: le responsabilità di Inzaghi nel 5-0 subito dall’Inter sono poche. Certo, una più accorta gestione della marcatura di Dembelè – l’attaccante francese è stato troppo libero di dominare l’impalcatura offensiva del Paris Saint-Germain – o un lavoro più attento sulle rotazione degli esterni avrebbe contenuto le imbarcate subite. Ma i gol e le occasioni create dal Paris sono sembrate facili più per i meriti dei francesi che per i limiti dell’Inter, limiti comunque più caratteriali che tattici.

«È stata una serata negativa in cui l’avversario ci ha surclassato in tutto, ma le 59 partite stagionali hanno dimostrato che come squadra e club meritino questo palcoscenico», ha spiegato nel postpartita Giuseppe Marotta. Poco dopo, il presidente dell’Inter ha dichiarato che nei prossimi giorni si incontrerà con Inzaghi. Ora la decisione se restare o meno spetta all’allenatore, che si prenderà qualche giorno di riflessione. In merito alla sua permanenza all’Inter, Inzaghi è combattuto perché ritiene che, con questo tipo di investimenti, non si possa fare più di così. Dall’altra parte, ci sarebbe la volontà di continuare per il naturale senso di rivalsa che lo spinge a voler aggiustare lo spirito dei suoi giocatori.

«Loro la volevano di più, ma un risultato pur così pesante non deve rovinare tutto quello che di buono abbiamo raccolto», ha confessato Nicolò Barella dopo la partita contro il PSG. Parole da leader dello spogliatoio, molto meno retoriche di quello che possano sembrare. Ed è da qui che deve ripartire Inzaghi. Per arrivare in finale l’Inter ha battuto Barcellona e Bayer Monaco, compiendo due vere e proprie imprese. Un concetto sottolineato dallo stesso Inzaghi con una semplice frase: «Zero titoli sì, ma l’orgoglio per il percorso resta».

È chiaro che questa finale finisca per segnare un solco nel ciclo di Inzaghi sulla panchina nerazzurra, ma le emozioni che hanno provato i tifosi nell’arrivare alla finale del 31 maggio non possono essere dimenticate. E i meriti vanno ascritti a lui, a Inzaghi: in quattro anni, l’ex allenatore della Lazio ha messo su una squadra che dal punto di vista tattico – connessioni per catene, movimenti di corto-lungo delle punte, pressione costante dei terzi di difesa e inserimenti delle mezzali – ha saputo ammaliare tutta Europa. Ma non solo: ha costruito la carriera di Dimarco e Dumfries, ha reso Calhanoglu uno dei registi più forti del mondo, ha portato Lautaro Martínez e Thuram nell’élite degli attaccanti. In ogni stagione, poi, Inzaghi ha perfezionato un aspetto differente del suo lavoro. Per ovviare a un’impostazione offensiva che alla lunga sarebbe potuta diventare prevedibile, per esempio, nel 2024/25 ha variato il ritmo di pressing per ribaltare l’azione il più velocemente possibile.

Poi è chiaro, Inzaghi non poteva nascondersi dopo cinque gol presi in una finale di Champions League. E infatti non si è nascosto: ha riconosciuto l’incapacità dell’Inter di entrare in partita, di non aver messo in pratica tutto quello che lui, la squadra e lo staff avevano preparato in settimana. L’impatto con un match mai davvero cominciato è stato devastante. Lo choc ha preso quasi subito il posto della delusione, la facce di Lautaro e compagni all’intervallo e a fine gara parlavano da sole, erano talmente imperscrutabili da risultare leggibili. Anche perché nell’ambiente nerazzurro c’era una chiara sensazione per cui questa fosse davvero la volta buona, una sensazione che l’epica delle vittorie con Bayern e Barcellona aveva alimentato in modo significativo. Anche la percezione che fosse una last dance per diversi protagonisti, in qualche modo, spingeva a credere che l’Inter fosse una specie di destiny-team indirizzato alla vittoria.

Ora Inzaghi vuole attendere qualche giorno, prima di decidere cosa fare. Ha bisogno di decomprimere anche un po’ di rabbia, come quella provata dopo i due cambi forzati che hanno riguardato Bisseck (peraltro entrato da pochi minuti) e Calhanoglu. Vero che, su cinque sostituti, Inzaghi ha inserito quattro difensori e un centrocampista centrale, ma probabilmente nessuno di quelli davanti (Taremi, Arnautovic o Frattesi) avrebbero modificato il flusso della partita. Si ritorna, quindi, alle considerazioni iniziali sulla costruzione e sul valore di questa rosa: Inzaghi non sa quanto ancora si possa chiedere a questo gruppo, un gruppo che gli ha comunque regalato uno scudetto, due coppe Italia e tre Supercoppe italiane, oltre a due finali europee che magari non fanno palmarés, ma di certo fanno curriculum. E lo rendono un grande allenatore che non ha senso crocifiggere, neanche dopo una sconfitta del genere.

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