Non c’è stato un solo momento, nel corso della finale giocata a Monaco di Baviera, in cui il PSG abbia dato l’impressione di poter perdere contro l’Inter. La distanza percepita tra le due squadre scese in campo all’Allianz Arena è stata gigantesca, abissale. A tutti i livelli: tecnico, tattico di pura intensità. E il risultato finale, come dire, è una testimonianza plastica di questa sensazione che si è avvertita lungo tutta la partita. Ora, come succede sempre dopo ogni finale e dopo ogni gara così squilibrata, viene da chiedersi quanto abbiano inciso le difficoltà dell’Inter come squadra, gli errori dei singoli e di Simone Inzaghi, la stanchezza, tutta quella serie di fattori che di solito vengono etichettati col termine “episodi”. Il punto, però, è che i demeriti nerazzurri – che pure ci sono stati, naturalmente – hanno avuto un impatto decisamente minore rispetto a quanto proposto, mostrato e prodotto dal PSG. Che, semplicemente, è una squadra che non avevamo mai visto prima.
Dal vecchio al nuovo
Cosa intendiamo quando diciamo che il PSG è una squadra che non avevamo mai visto prima? Semplice: non è facile neanche spiegare come gioca il PSG. La squadra di Luis Enrique, infatti, riesce a condensare in sé tutti i concetti tattici più importanti degli ultimi due o tre lustri: la pressione ossessiva sulla costruzione dal basso degli avversari, l’esasperazione di alcuni duelli individuali in diverse zone del campo e in diverse fasi di gioco, le rotazioni di tutti i giocatori in fase di possesso, l’esasperazione degli scambi nello stretto, la ricerca immediata della verticalità attraverso il gioco di posizione.
Ecco la risposta alla domanda iniziale: il PSG è una squadra che gioca fondendo tutti questi dettami, che mette insieme il meglio del calcio del passato e così ha dato vita a qualcosa di nuovo. Quindi è una squadra contro cui è difficilissimo fare qualsiasi cosa. L’Inter vista in finale, per dire, non ha mai avuto il tempo di impostare un’azione senza essere letteralmente assalita dai giocatori avversari. Né con Sommer, né con i tre difensori centrali, né con Calhanoglu, né tantomeno aprendo il gioco sugli esterni. E quando ha provato a scavalcare il centrocampo, a innescare direttamente le punte, i due centrali – Marquinhos e Pacho – erano sempre più reattivi, più rapidi, più affamati rispetto a Thuram e Lautaro. Nonostante, di fatto, non avessero copertura immediata da parte dei loro compagni.
Nuovo progetto PSG
Lo stesso discorso fatto con la pura tattica si può adattare anche al racconto del nuovo progetto-PSG: dopo tante estati passate ad acquistare giocatori famosissimi e costosissimi che dessero forma alla squadra, applicando quindi una sorta di modello-album delle figurine, negli ultimi anni a Parigi è cambiato tutto. A partire da come è stato inteso/fatto il mercato: dal 2022 in poi, e poi soprattutto dal 2023, la dirigenza qatariota e il diesse Luis Campos hanno iniziato a lavorare in senso esattamente opposto rispetto al passato, cioè hanno cominciato a prendere dei calciatori dal profilo simile se non addirittura sovrapponibile, giovanissimi, giovani o comunque non stagionati (i nuovi innesti più anziani avevano 27 anni) in grado di esprimersi ad altissimo ritmo.
Questo gruppo è stato poi affidato a Luis Enrique, una specie di asceta della sofisticatezza calcistica, un geniale assemblatore di idee visionarie, probabilmente l’unico allenatore al mondo – per conoscenze, per personalità, anche per testardaggine – in grado di plasmare una squadra come il PSG. Il tecnico spagnolo, di fatto, ha preso in mano il club francese e l’ha trasformato da cima a fondo, più o meno come Guardiola ai tempi del suo arrivo al Manchester City. Ed eccolo qui il paragone più calzante e più significativo: il PSG ha ripreso la stessa strategia del City – quella per cui non bisogna acquistare per forza i migliori giocatori al mondo, ma “solo” i talenti più promettenti in assoluto – e l’ha esasperata, l’ha portata nel futuro, come dimostra il lancio senza paura del teenager Doué, l’età media scandalosamente bassa della rosa (23,7 anni), il fatto che tutti i giocatori allenati da Luis Enrique, escluso il marginale Lucas Hernández, non avessero mai vinto la Champions League. Fino a ieri, naturalmente.
Poi certo, magari è (più) facile assemblare una grande squadra quando a gennaio puoi andare a prendere Khvicha Kvaratskhelia dal Napoli dando così l’ultima mano di brillantezza al tridente offensivo, quando hai un monte ingaggi di 221 milioni di euro. Ma i soldi bisogna anche saperli spendere, così come bisogna sapersi prendere dei rischi. In questo senso, il fatto che la prima Champions League nella storia del Paris sia arrivata proprio nella prima stagione dopo la cessione di Mbappé è piuttosto significativo. Il fatto che lo stesso Luis Enrique avesse predetto questo trionfo su tutta la linea («Senza Mbappé saremo più forti», disse il tecnico spagnolo più o meno un anno fa) dimostra che dentro il PSG c’era una certa sicurezza rispetto all’andamento del progetto.
Insomma, la vittoria del PSG e il modo spettacolare in cui è arrivata – il 5-0 in finale è solo l’ultima di una lunga serie di prestazioni scintillanti – hanno già creato un nuovo sfavillante benchmark calcistico, sia a livello progettuale che a livello tattico. Anche perché questo trionfo finisce per far cadere un po’ di tabù/cliché che sembravano inscalfibili: quello per cui la Ligue 1 non è un campionato allenante, quello per cui coi giovani è impossibile vincere, quello per cui mettere la Champions in bacheca è anche una questione di dna, di nobiltà, di gloria passata. A volte è così, non c’è dubbio, ma poi arrivano squadre come il PSG e riscrivono la storia. A modo loro, in un modo nuovo. E ora sta agli altri capire come fermarle, o come imitarle.
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