Bruno Fernandes ha detto no a un’offerta dell’Arabia Saudita da 25 milioni di euro a stagione

Una scelta che fa bene al Manchester United, alla Premier League, ma soprattutto al giocatore: al di là dei soldi, svernare nel deserto significa dire addio per sempre al calcio che conta.

C’è chi dice no. E non fugge dalla tempesta, foss’anche la stagione sportiva più disastrosa della storia recente del Manchester United. Eppure, da capitano, Bruno Fernandes ha deciso di restare. Nonostante le tentazioni dell’Arabia Saudita: un contratto faraonico da 300mila euro a settimana. E per giunta, l’Al-Hilal – dove invece è pronto ad allenare Simone Inzaghi – avrebbe rappresentato anche una destinazione a suo modo significativa per il portoghese. «Sarebbe stata una scelta facile», ha spiegato il centrocampista portoghese in conferenza stampa, durante il ritiro della sua Nazionale. «Laggiù ci sono Ruben Néves e João Cancelo, due ragazzi con cui ho una grande amicizia. Ma voglio rimanere a giocare al massimo livello e disputare grandi competizioni, perché mi sento ancora capace. Voglio continuare a essere felice», sia pure nell’infernale atmosfera dei Red Devils. «Ho ancora una grande passione verso questo sport e sono contento di questa decisione».

Per certe cose non basta nemmeno tutto l’oro del mondo (o dell’Arabia). E con questa mossa, piuttosto controcorrente, Bruno Fernandes dimostra di esserne consapevole – e in ogni caso in Europa, lui come tanti altri, mai rischierà la fame: guadagna oltre 15 milioni di euro a stagione. Ha quasi trent’anni, è reduce da un’annata di squadra da digerire in fretta, ma la fame semmai è per quei traguardi sportivi non ancora raggiunti: nella bacheca dell’ex Samp e Udinese ci sono soltanto coppe nazionali e una Nations League. Continuare allo United è sinonimo di agonismo. E credibilità verso l’intero movimento.

Basti pensare alla parabola di tutti coloro che invece, negli ultimi anni, hanno sistematicamente ceduto ai petroldollari. Passi per i vari Cristiano Ronaldo – colui che aprì questo vaso di Pandora, in ogni caso pioniere – e Mané e Benzema: per un campione a fine carriera, svernare nel deserto sa di prepensionamento dotato di tutti i comfort. E già sottointende un ragionamento orientato al futuro, a quel che verrà dopo, perché ormai il calcio giocato – anche con un certo cinismo verso se stessi – fa parte di quello che è stato. Ma l’Arabia non si limita più ai veterani, ricorrente tentazione esotica – in altri tempi e in altri lidi – sin dalle tarde avventure di Batistuta, Schillaci, Chinaglia e Pelé. Oggi la Saudi Pro League fa gola anche a chi è nel fiore degli anni e della carriera: Firmino, Mitrovic, Milinkovic-Savic, gli stessi Neves e Cancelo. Varcare le porte di quel mondo è un’ammissione di tramonto personale.

Tralasciando l’eccezionalità di CR7, il calcio arriva presto a dimenticarsi di tutti gli altri. Molti di loro, quando ritornano in Europa per le rispettive Nazionali, si ritrovano affaticati e in ritardo di condizione. Non sono più gli stessi. Alcuni invece la Nazionale arrivano perfino a perderla. Di default, ancora prima di salire sull’aereo verso il Medio oriente: è il caso di Steven Bergwijn, radiato dall’Olanda perché giocare in Arabia: «È una scelta che non ha nulla a che vedere con lo sport”, disse il suo ct Koeman. Per questo la decisione di Bruno Fernandes è a suo modo coraggiosa e potenzialmente esemplare per tanti suoi colleghi. Il calcio è qui, lo spettacolo altrove. Ma chi si fa tentare dal secondo per il primo, alla fine, impoverisce anche il calcio. Non c’è disastro sul campo che tenga. Da Monaco a Bilbao. C’è ancora chi dice no.

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