Un anno fa, proprio di questi tempi, quando l’Udinese annunciava la sua intenzione di non proseguire con Fabio Cannavaro in panchina e di virare su Kosta Runjaic, grande era stato lo stupore sotto il cielo friulano: ordunque, chi era costui? Ferocemente avvinghiati alla retorica del Paese da 60 milioni di commissari tecnici, fatichiamo a considerare come una pista plausibile quella che porta fuori dagli allenatori del nostro Paese. E se straniero deve essere, il requisito principale pare essere uno: deve conoscere il campionato, che sia per un passato da calciatore o per una precedente esperienza da allenatore. Forse per questo, per mesi, si è cercato di paragonare i risultati ottenuti da Cesc Fàbregas con quelli degli altri tecnici italiani, a voler sminuire il lavoro dello spagnolo al Como, emerso poi in maniera tonante nella seconda metà della stagione; e la mossa del Genoa di lasciare il certo (Gilardino) per l’incerto (Vieira) era stata accolta con uno scetticismo poi respinto e scacciato dal campo.
Quello che sta succedendo in queste settimane rappresenta allo stesso tempo la conferma del trend e anche una pericolosa novità: le società di Serie A sembrano aver finito le idee. La Lazio ha fatto marcia indietro ed è tornata strisciando da Maurizio Sarri, che aveva sbattuto la porta un anno e mezzo fa; il Milan, per provare a tornare grande, ha richiamato Massimiliano Allegri, il quale vivrà un secondo grande ritorno dopo quello in bianconero. E anche la Fiorentina pare giunta a un passo da un clamoroso rientro, quello di Stefano Pioli, dopo essere stata lasciata a piedi da Raffaele Palladino, così stufo delle critiche da lasciare sul piatto altri due anni di contratto. La fuga dorata di Simone Inzaghi, l’avventura brasiliana di Carlo Ancelotti, la ritrosia a puntare su tecnici stranieri e la tendenza sempre più spiccata dei giovani allenatori promettenti ad andare oltre confine (De Zerbi, Maresca, Farioli) suonano inoltre come i campanelli d’allarme di un altro problema: la Serie A ha finito per consumare i suoi allenatori di élite?
Antonio Conte è ripartito di slancio con lo scudetto a Napoli, ma solo dopo essersi messo alla prova all’estero ed essersi preso una pausa; Luciano Spalletti è finito nel tritacarne della Nazionale e ne è uscito maciullato; Roberto Mancini non allena un club dal 2018 ed è entrato solo marginalmente nel tourbillon dei tecnici di questa estate, al punto che oggi si è detto disponibile a un ritorno in azzurro che avrebbe contorni rocamboleschi; i già citati Allegri e Sarri cercano il rilancio in piazze che già conoscono ma finite, per motivi diversi, fuori dall’Europa. Si è perso il gusto di osare, di puntare su qualcosa di totalmente fuori dagli schemi: senza voler riportare alla mente la lucida follia berlusconiana ai tempi della scelta di Arrigo Sacchi prima e Fabio Capello poi, basterebbe ripensare alla ripartenza juventina di metà anni Novanta affidata a Marcello Lippi, o ancora alla chiamata del primo Allegri da parte del Milan. In una situazione di questo tipo, ben venga l’azzardo interista su Cristian Chivu, apparso agli occhi di tutti come un piano B ma quantomeno intrigante sotto il profilo della scommessa su un allenatore che ha uno storico inevitabilmente ridotto come tecnico di una prima squadra, ma che a Parma ha dimostrato di poter rimettere in sesto un gruppo che da diverse settimane appariva senz’anima e destinato al tracollo imminente.
Tra chi ha scelto di cambiare, la mossa più affascinante è stata senza alcun dubbio quella della Roma, che con l’arrivo di Gasperini si orienta su un allenatore diversissimo da tutti quelli che aveva scelto a inizio stagione in passato: non c’è la forza del cuore di De Rossi, l’impatto debordante dal punto di vista del carisma e della comunicazione di Mourinho, il gusto dell’esotico rappresentato da Paulo Fonseca. Ed è abbastanza indicativo sul momento del campionato italiano il fatto che due dei posti di maggior prestigio siano stati occupati da due emanazioni, dirette o indirette, dei concetti di calcio che Gasperini ha elevato ad arte: la Juventus, spiazzata dalla decisione di Antonio Conte di restare a Napoli, ha scelto di non scegliere, rimanendo con Igor Tudor, che con Verona, Olympique Marsiglia e nello spezzone alla Lazio ha dimostrato di saper maneggiare con sapienza i principi dell’aggressione altissima uomo contro uomo, della volontà di riconquista rapida del pallone, di un calcio fatto di uno contro uno e senza troppi punti di riferimento in attacco. Per motivi di tempo, però, tutto questo non si è visto se non a sprazzi nel finale di stagione juventino. E c’è da capire in che modo il croato verrà sostenuto dal mercato. E l’Atalanta, con una mossa che ha destato più stupore che applausi, ha portato a Bergamo l’erede diretto dell’uomo che ha reso grande la Dea, Ivan Juric, reduce da una stagione da lacrime e sangue con Roma prima e Southampton poi, un doppio fallimento così fragoroso da legittimare la prospettiva di vederlo lontano da panchine di medio e alto livello per un buon periodo. Ma la fiducia del direttore sportivo D’Amico, con cui aveva già lavorato a Verona, e la volontà di non scostarsi dalla strada tracciata nelle ultime nove stagioni da Gasperini, sono state più forti dei flop ancora caldi e di ogni volontà di cambiamento, nella speranza che il cosplayer del Gasp sia sufficiente per tenere altissima l’asticella del rendimento.
C’è poi un altro fattore da tenere in considerazione: la capacità di dire no. L’Atalanta per anni ha saputo convincere Gasperini a rimanere, nonostante le offerte che si erano susseguite; il Bologna, dopo aver perso Thiago Motta e aver risposto sul campo con una stagione straordinaria, ha avuto la forza economica – e di progetto – per rinnovare il contratto di Vincenzo Italiano, apparentemente destinato a piazze di ben altro blasone ma in cui pareva regnare la confusione; il Como, forte di una proprietà dalla potenza economica non più trascurabile, ha eretto un muro per evitare che l’Inter mettesse le mani su Fàbregas. Non esiste il timore di mettersi contro le big storiche, e almeno questo è senza dubbio un segno di crescita del nostro campionato.
Ma c’è anche lo scenario desolante che circonda la Nazionale, con la Federazione che dopo aver interrotto il rapporto con Spalletti avrebbe accettato senza colpo ferire l’opzione di un doppio ruolo affidato a un tecnico prossimo ai 74 anni che già in due occasioni aveva annunciato il suo ritiro dall’attività. Intendiamoci: nulla contro Ranieri, il cui operato alla Roma nell’ultima stagione ha avuto i contorni del miracolo, ma è la dimostrazione di un contesto in cui si fatica a individuare nomi di grido, al punto che le principali alternative al momento ruotano tutte attorno a un concetto vago come stelle dell’Orsa, quello dell’appartenenza che arriverebbe in dote dagli “eroi del 2006”, che si tratti di Gattuso, De Rossi o Cannavaro. Quella che una volta era la panchina dei sogni adesso è diventato un incubo da scacciare per chi ha già un nome e, invece, l’occasione di una vita per chi ha bisogno di rilancio. Qualche segnale di vita lo si scorge tra chi lotta per non retrocedere: desta curiosità la mossa del Cagliari di puntare su Pisacane, si attende di capire cosa faranno Lecce, Parma, Pisa e Cremonese, nella speranza di qualche sussulto inaspettato. Ma al momento le idee scarseggiano. E come cantava il poeta, se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione.