In vendita, ma non basta. A oggi, mentre il Manchester City si appresta a iniziare il Mondiale per Club, nelle sedi societarie si pensa già alla prossima stagione. Obiettivi di mercato, trattative in corso e altre – leggi Reijnders – già andate in porto. Soprattutto una rosa da sfoltire, su espressa richiesta di Pep Guardiola. Eppure, fra tutte le scartoffie, mail o telefonate sul tavolo dei Citizens, nessuna riguarda Jack Grealish. Fuori dal progetto e dai radar del pallone. Senza la minima offerta pervenuta al club, che pure lo considera decisamente in uscita (al punto da non venire nemmeno convocato per la competizione in America). A quasi 30 anni, possibile che non ci sia squadra che creda più in colui che all’epoca fu l’acquisto più oneroso nella storia del calcio inglese?
Il problema a Manchester si pone eccome. Perché Grealish, nel 2021, fu pagato all’Aston Villa la bellezza di 117 milioni di euro. E perché oggi ne continua a percepire 350mila a settimana – o se volete, oltre 18 milioni a stagione. Un’enormità, anche per le casse dello sceicco Mansour. E l’equivoco in effetti si trova a monte: per non svalutare eccessivamente un’operazione di mercato che in ogni caso sarà ricordata come un fiasco, il City continua a chiedere quasi 59 milioni di euro. Mica pochi. E infatti nessuno ha la bislacca idea di investire una cifra del genere per un fantasista in piena involuzione tecnica, lontano dagli sprazzi di classe dei suoi anni migliori. Sembra chiaro che presto o tardi i dirigenti saranno costretti ad abbassare l’asticella: su Transfermarkt, il cartellino di Graelish è quotato appena 28 milioni di euro. La metà di quanto pretende il City, un quarto di quanto era costato.
Da qui il grande dubbio: il classe ’95 era un talento cristallino che si è perso alla corte di Pep, o semmai un buon giocatore capace di spiccare in una piccola – i Villans di allora – ma poco incisivo per una big? La parabola di Grealish potrebbe ricordare quella di altre comete sulla via della Premier, apparse e poi sparite a centrocampo. Si pensi a Jack Wilshere, ancora di più a Dele Alli. Ma il primo è stato falcidiato dagli infortuni. Il secondo anche da una travagliata storia personale, culminata nella depressione. Nel caso di Grealish, nulla di così eclatante. Certo, le continue esclusioni e il progressivo ridimensionamento tecnico nelle gerarchie dei Citizens l’hanno senz’altro condizionato: lui stesso ha raccontato di aver affrontato dei momenti di «difficoltà mentale» nell’ultimo quadriennio (e chi non ne avrebbe avuti, con addosso una pressione del genere?). Eppure la sensazione è che ci sia qualcosa di più profondo.
Perché Grealish in fin dei conti non ha mai avuto un vero e proprio prime time – nel senso: un rendimento a tali livelli del calcio che giustificasse anche una buona parte dell’investimento del City. Due stagioni da trascinatore assoluto all’Aston Villa, che però si giocava la salvezza. Zero presenze in competizioni europee. Diverse, con un paio di assist, nell’Inghilterra (fino allo scorso autunno i suoi unici gol sono stati contro Andorra e nel 6-2 all’Iran all’ultimo Mondiale). Ha sempre avuto un buon tiro, qualità da dribblatore, un’ottima visione di gioco: a Manchester l’ha fatto vedere soltanto a tratti, schiacciato dalla concorrenza (la sua unica stagione veramente di alto livello è stata quella del triplete, nel 2022/23, ma in quel City funzionava un po’ tutto). C’erano dunque i presupposti per considerarlo addirittura una superstar assoluta? Facile rispondere, col senno di poi. A quei tempi l’hype attorno a Grealish aveva dimensioni continentali. Simbolo dell’abbondanza inglese, che pure avrebbe deluso le aspettative: non è attraverso la qualità e il bel gioco che Southgate ha raggiunto due finali europee consecutive. E anche in quel contesto, Jack è sempre stato un gregario. Una golden sub sempre meno dorata.
E adesso? A Grealish serve un’occasione. Una sola può bastare, nel posto giusto e con lo spazio giusto. A patto però di fare i conti con la realtà, senza più etichette di sorta: con ogni probabilità sarà in una squadra o in un campionato notevolmente inferiori rispetto al palcoscenico di Manchester. Un passo verso il futuro – soprattutto dal punto di vista economico, abbassando le pretese per l’ingaggio – dovrà farlo anche il giocatore stesso. Se ci sarà voglia di provare ancora a fare la differenza, e dimostrare che fin qui si è trattato soltanto di un matrimonio sbagliato. Non di un pretendente da poco.
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