La forza del Bologna è che siamo un branco di matti, intervista a Riccardo Orsolini

Uno dei migliori giocatori dell'ultimo campionato racconta i suoi esordi, il suo percorso, il suo modo di giocare e vivere il calcio: con la leggerezza, col sorriso.
di Fabio Simonelli
25 Giugno 2025

Scusa Blerim, ma non è che posso entrare in macchina allo sta – dio?». Bastano queste poche parole per capire chi è Riccardo Orsolini. Spontaneo, spigliato, divertente, molto divertente. Prima di incontrarci per questa chiacchierata voleva parcheg – giare l’auto sulla pista del Dall’Ara. Per il meme, come si di – rebbe ora. Quando ha preso in giro il custode dicendogli di voler girare per il campo, Blerim è quasi sbiancato. Il Dall’Ara è casa sua, metaforicamente e non, dato che abita poco lontano. Passa davanti alla panchina e ci svela dove si siede sempre quando esce dal campo, indica il tunnel e rivela tutta l’emozione di ascoltare “Caro amico ti scrivo” quando lo si attraversa dopo una vittoria, sale sull’ultimo gradone della curva Andrea Costa per «vedere il punto di vista dei tifosi e capire cosa provano quando c’è un gol». Da qui si gode il panorama di Bologna, i portici sulla collina che portano fino al santuario di San Luca. Tra una foto e l’altra, con addosso parte del kit esclusivo realizzato da C.P. Company per il Bologna FC (è disponibile sul sito ufficiale cpcompany.com una collezione limited edition ispirata allo stesso kit), racconta di tutto: della bellezza di avere uno stadio del genere in centro città, di Rotella, il paesino in provincia di Ascoli dove è cresciuto, del Porco Festival, la sagra di paese che non si fa più, di quando ha passato una serata da solo a spasso per New York e della rovesciata contro l’Inter che gli ha ricordato i pomeriggi sulla spiaggia di San Benedetto.

A proposito di rovesciate, è così che sei stato scoperto.
In realtà sì. Giocavo in spiaggia con gli amichetti del mare e facevo le rovesciate. Il beach soccer è figo e quando hai 5-6 anni è bello rotolarsi in mezzo alla sabbia con gli amici. È passato un osservatore che allenava nel settore giovanile dell’Ascoli e ha detto a mio papà: “Suo figlio è forte, lo porti ad Ascoli”. Per i miei era impegnativo fare ogni giorno 50-60 chilometri. Alla fine io e mio cugino siamo stati convincenti e i primi anni siamo andati a calcio ad Ascoli insieme. Le nostre famiglie si alternavano per portarci ad Ascoli, dal nostro paesino, Rotella. Sono stati anni un po’ difficili a livello di sacrifici, ma alla fine ne è valsa la pena, sono contento. Meno male che mio papà ha deciso di portarmi.
Per quella contro l’Inter sei diventato una star.
Certo, ormai sono sui muri, mi hanno fatto addirittura Santo, Sant’Orsolini (ride, ndr) Che bambino sei stato e che rapporto hai con Rotella? In paese ero abbastanza famoso, ero una peste, ho fatto parecchi danni alle opere pubbliche. Ormai è tutto caduto in prescrizione, però insomma io e gli amichetti della mia combriccola ne abbiamo combinate un bel po’. Col pallone abbiamo distrutto qualsiasi cosa nella piazza: vasi, panchine, serrande, manifesti elettorali, vetrine… Vabbè, lasciamo perdere.

Ti rendi conto di quanta strada hai fatto? Te lo immaginavi?
Assolutamente no. Sapete qual è stata la cosa bella? Che non ho mai pensato di arrivare qui. Era un sogno che era dentro di me ma non era un’ossessione. Forse questo è il motivo per cui poi sono arrivato fin qui. Non c’è una formula magica, questo è il mio percorso, magari altri ne fanno uno diverso. Io non ho fatto i migliori settori giovanili d’Italia. Non sono stato in una squadra di Serie A prima dei 19 anni, quando mi ha comprato la Juve. Ho preso un’altra strada.
Un viaggio un po’ tortuoso…
Sì, ho preso la circonvallazione. Non è stato proprio un percorso lineare come la maggior parte dei miei compagni, ma sono soddisfatto di tutto quello che ho fatto, ripercorrerei ogni tappa di questa bellissima avventura. Poi, come ho sempre detto, un giorno quando smetterò vorrei guardarmi indietro e non avere rimpianti. Per il momento non ne ho, vorrei continuare così.

Che ricordi hai delle esperienze con Juventus prima e Atalanta poi?
Venivo da un contesto completamente diverso, quello della Serie B, in una squadra che puntava a salvarsi. Trovarsi davanti a giocatori che avevano appena fatto la finale di Champions non è stato facile. Avevo dei limiti a livello fisico e di intensità, non avevo ancora la struttura per poter reggere un semplice contrasto con gente come Khedira, Chiellini o Bonucci. Dopo una settimana ho capito subito che non potevo restare lì a meno di scegliere un percorso di crescita diverso, magari accettando di non giocare. Ma sapete, un giovane vuole sempre scendere in campo e allora con il mio procuratore abbiamo scelto l’Atalanta. Ci ha chiamato Giovanni Sartori che aveva visto qualcosa in me e sono andato subito a Bergamo. Per l’Atalanta era il primo anno in Europa League, c’era una bellissima atmosfera, un contesto simile al primo Bologna, una squadra che si stava formando e voleva imporsi a livello europeo. C’erano tutti i presupposti per fare bene, anche se avevo davanti Papu Gómez e Ilicic. Loro erano giocatori affermati, io il ragazzino che veniva dalla Serie B ad Ascoli. Quell’anno ho fatto parecchia fatica, qualche presenza in A, una in Europa League. Avevo fatto anche il primo gol in Serie A che poi mi è stato annullato. Insomma, varie vicissitudini. Poi a gennaio ho visto che la situazione non era delle migliori e ho capito che non poteva migliorare da lì alla fine dell’anno. Mi ha chiamato Di Vaio, il Bologna era molto interessato, anche qui avevano visto qualcosa in me. A Bologna avevo giocato qualche spezzone di partita, ma i primi mesi non sono stati semplici.
Perché?
C’era un clima di contestazione, era l’ultima parentesi di Donadoni, l’anno è andato scemando. Come primo anno in Serie A è stato traumatico per me. Certo, stavo cominciando a lavorare in un certo modo, ero cresciuto fisicamente, avevo iniziato a prendere i ritmi, ho fatto qualche partita da titolare, ma ero ancora acerbo come giocatore. Ho deciso quindi di finire la stagione in maniera decente per poi ributtarmi sulla successiva con il nuovo allenatore. È venuto Pippo Inzaghi che ha portato nuovi stimoli ed entusiasmo. Da lì è partito il mio percorso a Bologna che dura ancora oggi, felicemente.

C’è stato un momento in cui hai sentito di aver fatto il salto di qualità?
Tutti dicono che si arriva a una certa età e si acquisisce una maturità, una consapevolezza diversa. Io ho cominciato a percepirla nell’ultimo anno e mezzo. È una nuova fase della vita come quando ti devono cascare i denti da bambino. Sento l’importanza che mi si dà nell’ambiente, le aspettative della gente.
Cos’è stata la vittoria in Coppa Italia?
Ci ho messo un po’ a metabolizzare, è stata una vittoria tanto voluta e sudata. Sicuramente il momento dell’alzata al cielo del trofeo è un’immagine che rimarrà impressa nella mia memoria per sempre, diventerà iconica. Un’emozione che non si prova spesso. Per una piazza come Bologna non c’è niente di più bello. Incredibile il supporto dei nostri tifosi: abbiamo trasferito tutto il Dall’Ara all’Olimpico. L’emozione al triplice fischio credo ne sia valsa tutti i chilometri.
Hai una dedica in particolare?
È la vittoria di chi ci ha sempre creduto, di chi è passato, di chi è rimasto e di chi purtroppo non c’è più. Penso a Sinisa Mihajlovic, questa Coppa è anche sua. Ci hai accompagnato nella curva del Bologna, l’Andrea Costa, e dall’ultimo gradone ci hai fatto vedere casa tua.

Com’è la tua vita bolognese?
Sono uno che in giro si vede poco. Mi piace una vita normale, anche un po’ da anziano sotto certi punti di vista. Adoro stare a casa, mi piace riposare, esco a cena non più di una volta a settimana, massimo due, con i compagni di squadra, qualche amico stretto. Mi ritengo anche una persona abbastanza riservata, ma soprattutto nei primi anni ho avuto modo di esplorare Bologna, tra passeggiate sotto i portici, una gita a San Luca o sui colli e il cibo. Insomma, le caratteristiche di Bologna. Ormai la conosco come le mie tasche.
Quindi ti piace scoprire dei posti nuovi, come quella volta a New York con la Nazionale.
Sì, eravamo in America per giocare contro l’Ecuador, a marzo dell’anno scorso. Spalletti ci aveva lasciato la serata libera. Gli altri volevano andare a mangiare italiano, ma come? Italiano a New York? Ma no, io sono uscito da solo, mi sono preso una bella fetta di pizza alta e ho assaggiato la Dr Pepper. Non l’avessi mai fatto, era un disastro. Poi ho girato per tutta Manhattan.

Conosci bene anche l’atmosfera al Dall’Ara. Ma a fine partita, quando dalle casse partono Dalla e Cremonini, senti ancora i brividi?
Sì, perché se parte la musica significa che abbiamo vinto. Già sono contento di mio per il successo, poi quando vedo il gioco di luci mi emoziono. Quando abbiamo vinto contro l’Empoli e siamo approdati in finale di Coppa Italia c’era un’atmosfera davvero da brividi, figuratevi con i fuochi d’artificio nel giorno della festa Champions. L’inno, poi, non parliamone neanche.
A proposito di Champions League, l’ultima cosa che hai pensato prima di entrare in campo?
Mi ha emozionato tantissimo lo scambio di gagliardetti con il capitano dello Shakhtar Donetsk. È stato stupendo, quella era la prima partita nella nuova Champions League del Bologna dopo 60 anni: lo stadio, il clima, la pioggerellina, c’erano delle strane vibes. Era tutto così bello e naturale che l’ansia è scomparsa al fischio di inizio.
E la prima cosa che ti è venuta in mente dopo la festa in Piazza Maggiore per la qualificazione in Champions?
Che non avevo mai vissuto una giornata così fantastica. Ammetto che ero intossicato dai fumogeni (ride, ndr), non avevo più la voce. Era la prima volta che facevo una festa con un pullman scoperto. Io non ho mai vinto niente, era una sensazione nuova. È stato eccezionale vedere tutta quella gente, quel corteo di persone che ci seguiva per tutte le vie del centro. È stato veramente pazzesco, piazza Maggiore era tutta colorata di rossoblù, i tifosi gridavano i nostri nomi, è stata una delle emozioni più belle della mia vita.
Quando sei andato ad Anfield, hai toccato il logo nel tunnel?
Certo, e che fai? Vai al Louvre e non vedi la Gioconda? Cosa cambia tra Italia ed Europa? Tutto: intensità, velocità di gioco, tensione, è qualcosa di completamente diverso.

 

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Su Undici ti abbiamo definito il giocatore più simpatico della Serie A, senti di essere un personaggio positivo?
Vi ringrazio, ho sempre cercato di essere me stesso. Se parlate con i miei amici di sempre vi diranno la stessa cosa perché alla fine ho sempre cercato di mantenere tutti i miei principi, ovvero trasparenza e coerenza. Non mi piace che qualcuno possa parlare male di me.
Ma quanto giochi con il nomignolo Orso?
Tantissimo, tutto diventa Orso: meravigliorso, scontrorso, luminorso, permalorso, ce ne sono tantissimi.
Parlando di gruppo nel Bologna, è diventato virale quel video in cui vi caricate prima del riscaldamento. Quanto siete uniti?
Da fuori possiamo sembrare persone anche abbastanza normali, ma siamo un branco di matti. Questa è la nostra forza. Facciamo delle cose che non sono ordinarie: spacchiamo mezzo tunnel prima di entrare a fare riscaldamento e urliamo come delle tribù indiane (ride, ndr). Il nostro segreto è il gruppo, la coesione, la compattezza e il fatto di prendere il calcio con un po’ con leggerezza. In alcune partite qualcuno potrebbe sentire la tensione e noi proviamo a sdrammatizzare. Se ci pensate, alla fine cosa facciamo? Giochiamo a pallone, non stiamo cambiando il mondo. Se si scende in campo col sorriso, tutto riesce meglio. Se si affrontano i match con tranquillità ma concentrazione, i risultati arrivano.
Chi in squadra è il più estroso di tutti?
Vale anche rispondere Orsolini.. Sì, Orsolini è uno dei matti, ma ce ne stanno altri 15, 16. Ce ne sono pochi sani qui dentro, proprio quello è il bello. Ci sono quelli che non lo sembrano come Aebischer… Ma è uno svizzero, la compostezza per eccellenza… Esatto! Uno svizzero! Michel è il numero uno, il compagno di cena che vorresti con te. Ma anche De Silvestri, Casale, Fabbian, persino gli stranieri, Holm e Ndoye in particolare. Secondo me Sartori ha fatto i test prima di comprarci (ride, ndr).

E alla guida di questa squadra “matta” c’è Italiano. Cosa vi ha trasmesso
Il mister è uno di cuore, è un tipo come me, non riesce a nascondere un sentimento. Se è contento te lo deve far vedere, se è arrabbiato lo stesso. Se non gli va bene qualcosa te ne accorgi. È il bello delle persone vere. Lo apprezzo molto, come allenatore e come persona. Se c’è qualcosa che non va, ti prende da parte e ti dice: “Ho un problema con te per questa cosa”. E lo risolviamo. Come fanno le persone normali. È difficile capire una persona che non riesci a percepire dall’altro lato. Quando le persone che lavorano con te sono trasparenti diventa tutto più semplice. Ha carisma, trasmette grinta e passione. Sono contento che sia venuto a Bologna. Ci sta infondendo tutti i suoi ideali e i suoi principi a livello tecnico e tattico.
Questa facilità di interazione è un plus rispetto alla passata stagione?
Fare dei paragoni è difficile e nemmeno mi va. Tutti noi siamo diversi, chi è fatto in un modo, chi in un altro. Sono due campionati completamente differenti, nonostante il 95 per cento del blocco squadra sia uguale. Italiano ha tenuto delle caratteristiche della scorsa stagione, adattandole sulla sua idea di calcio. Una sorta di fusione di Dragon Ball, in cui usciva Gogeta, il Sayan più forte di tutti. Qui è uscito invece un branco di sguaiati (ride, ndr).
Se dovessi fare uno scouting report di te stesso, come ti descriveresti?
Sono un giocatore a cui piace improvvisare, dribblare, puntare l’uomo per andare al tiro. Mi stanco un po’ in fase difensiva, ma su questo aspetto Italiano mi chiede tanto lavoro e mi sto abituando a ripiegare sempre di più.

Da Undici n° 62
Foto di Piergiorgio Sorgetti

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