Nell’estate del 2023, al momento della scelta di Edin Dzeko di lasciare la Serie A Turchia, in molti, da queste parti, avevano ironizzato sul destino della massima serie turca, destinata a diventare un cimitero degli elefanti in salsa calcistica, il campionato ideale nel quale andare a spendere gli ultimi scampoli di carriera pur provando a rimanere competitivi, rinunciando alla mestizia dorata promessa dall’Arabia Saudita e, in minor parte, dal Qatar. Ora, dopo 99 presenze e 46 gol tra campionato e coppe, il centravanti bosniaco ha deciso di fare il percorso inverso, tornando in Italia per vestire la maglia della Fiorentina. Nulla contro l’ex attaccante di Roma e Inter, che pur essendo un classe 1986 ha dimostrato di essere ancora un giocatore integro e validissimo e arriva a Firenze con l’obiettivo – follie di mercato a parte – di coprire le spalle a Moise Kean, ma alla luce di quello che sembra ormai un trend consolidato, pensando all’imminente arrivo di un’altra leggenda ai titoli di coda come Luka Modric, risulta quantomeno legittimo porsi un paio di domande: come e perché siamo diventati «un Paese per vecchi, il contrario del film dei Coen», tanto per citare un Marracash d’annata?
Nel corso di questi anni, l’Inter è rimasta ad altissimi livelli anche grazie all’arrivo di alcuni venerabili maestri come il già citato Dzeko ed Henrikh Mkhitaryan, approdati a Milano dalla Roma e capaci di tenere altissima l’asticella delle prestazioni, così come ha fatto Francesco Acerbi nel cuore della difesa; il Milan si è aggrappato per diverse stagioni alle spalle larghe di Olivier Giroud e in precedenza aveva cambiato parte della sua storia recente grazie all’ennesimo rientro di Zlatan Ibrahimovic e all’inserimento in difesa di Simon Kjaer; la Lazio è reduce da un’annata in cui a tratti il 38enne Pedro è parso praticare un altro sport rispetto a quello dei suoi compagni, riuscendo a ribaltare il piano di partite che si erano messe in salita grazie alla sua classe.
La prima ragione di questo trend è da individuare nell’impossibilità, da parte dei club italiani, di tenere testa non tanto e non soltanto alle big europee, ma nemmeno a squadre della seconda metà della classifica in Premier League. Tanto per fare un esempio: il Sunderland, grazie alla promozione dalla Championship dopo stagioni di lacrime e sangue, ha visto scattare in automatico il riscatto di Enzo Le Fée dalla Roma per una cifra intorno ai 23 milioni di euro; il Leeds ha appena annunciato l’arrivo di Jaka Bijol dall’Udinese per 22 milioni; il Burnley sta per prelevare dalla Lazio Loum Tchaouna in cambio di 14 milioni più bonus e percentuale sulla futura rivendita; Diego Coppola andrà al Brighton per 12 milioni. Eccezion fatta per quest’ultimo club (ottavo nell’ultima Premier), si parla di tre neopromosse. E se da un lato anche l’Italia in questi anni ha potuto vantare club capaci di arrivare in A e spendere molto grazie alla forza delle proprietà straniere (Parma e Como), quella che da noi è l’eccezione, altrove è la norma.
In risposta a tutto questo, i club italiani preferiscono spesso andare sull’usato sicuro: lo fanno in panchina, lo fanno in campo. Non è detto che si tratti di una decisione sbagliata, anzi: come ha ricordato giustamente Giovanni Armanini nella sua newsletter Fubolitix, negli ultimi cinque anni il ranking UEFA della Serie A è migliorato a tal punto da superare Liga e Bundesliga. E quindi, per club che non sono orientati al player trading, quella degli Instant Team può essere senza alcun dubbio una strategia vincente nel brevissimo periodo. Persino i club che hanno vinto in Italia in questi anni, hanno dimostrato quanto è difficile costruire un ciclo vincente e duraturo difendendo con le unghie i pezzi pregiati: l’Inter campione d’Italia con Conte dovette smantellare vendendo subito Lukaku e Hakimi; il Milan scudettato dell’anno successivo perse, nel giro di due estati, Kessié e Tonali; il Napoli rinunciò immediatamente a Kim Min-jae e si imbottigliò in una stagione da incubo perché decise di non cedere nessun altro. Insomma: quando le grandi potenze economiche d’Europa bussano, le italiane devono chinare il capo e vendere.
Ci troviamo così a vivere questa sorta di ondata di ritorno, se pensiamo che oltre a Dzeko anche Ciro Immobile potrebbe tornare in Italia dopo la parentesi turca e chissà, magari anche Mauro Icardi proverà a rimettersi in gioco da queste parti, così come Álvaro Morata sembra a un passo dall’approdo a Como agli ordini del vecchio amico Cesc Fàbregas, quasi a voler confermare che ormai gli altri siamo noi. Ma cosa c’è nel nostro calcio di così adatto alle caratteristiche di giocatori ormai lontani dal loro apice fisico? L’impressione è che i ritmi più bassi possano aiutare specialmente quei profili che non rivendicano la necessità di un posto da titolare: entrare nei momenti in cui le squadre sono più stanche e sfilacciate aiuta i vecchi lupi di mare a leggere il contesto in cui far male. È certamente il caso di Pedro, che in Serie A quest’anno ha trovato nove dei suoi dieci gol entrando in campo dalla panchina. E viene da chiedersi, a questo punto, in che modo Massimiliano Allegri deciderà di utilizzare Modric, che negli ultimi due anni agli ordini con Carlo Ancelotti si è spesso trovato a cambiare le sorti anche di sfide di altissimo livello giocando spezzoni da 20-30 minuti.
Poter utilizzare campioni a gara in corso è un lusso in grado di ribaltare il corso di una partita: mentre in Premier spesso si assiste a delle partite totalmente impazzite, con un’intensità fisica fuori scala per il nostro campionato, da noi la mezz’ora finale è il territorio di caccia ideale per uomini che fanno di classe e letture di gioco il loro punto di forza. Questa, a dir la verità, non è una tendenza recentissima: basti pensare alla quantità di punte italiane che hanno vissuto la loro epoca d’oro a cavallo dei trent’anni o anche molto dopo, da Toni e Di Natale fino a Quagliarella. Al contrario, invece, una punta che ha fatto dell’attacco alla profondità la sua arma di forza principale, Ciro Immobile, a un certo punto si è trovato costretto a fare i conti con il peso dell’anagrafe, e chissà se l’esperienza turca non gli sia servita per tornare in Serie A con un approccio diverso, più portato a essere centellinato nei finali di partita. Del resto, quello del veterano da calare con la contesa orientata al tramonto è un ruolo antichissimo, come ricordano con orgoglio i tifosi juventini di una certa età: il 34enne José Altafini, arrivato a Torino nel 1972 al grido di core ‘ngrato da parte dei sostenitori del Napoli, rimase sulla cresta dell’onda per altri quattro anni. In maniera analoga, due decenni più tardi, Daniele Massaro si reincarnò in Provvidenza, avvicinandosi sempre di più alla porta e vivendo stagioni di gloria con Fabio Capello in panchina.
L’altra tendenza certificata è quella dei giocatori che arrivano in Italia dalla Premier League e si ritrovano a dominare dal punto di vista fisico: citare la stagione di Scott McTominay diventa un esercizio fin troppo facile, ma abbassando un po’ l’asticella è sufficiente fare i nomi di Ruben Loftus-Cheek (limitatamente alla sua prima stagione nel Milan) oppure di Chris Smalling e Tammy Abraham, oppure ancora – per rimanere all’ultima annata – si potrebbero ricordare i primi quattro o cinque mesi devastanti di Nuno Tavares alla Lazio, prima di essere inghiottito dagli infortuni. A questo punto, verrebbe da dire: datecene ancora. Prepariamoci a Modric, al ritorno di Dzeko, in parte anche a Kevin De Bruyne, citato solo in coda perché la carta d’identità dice che di anni ne ha solamente 34 e al confronto degli altri risulta quasi un giovane di belle speranze. Pur di goderci una goccia di splendore, siamo disposti a tutto.