La sfida alla gravità della nuova generazione di climber

Quando si tratta di arrampicata sportiva, non è facile ereditare il testimone dei pionieri del passato. Ma c'è un gruppo di talenti che ha in testa una missione: quella di non porsi limiti, proprio come nella filosofia di Sector No Limits.
di Alessandro Cappelli

hi arrampica lo riconosci dalle mani, dita forti, magnesite appiccicata alla pelle consunta, calli dappertutto. Le mani si aggrappano alla parete, su ogni appiglio possibile, si allungano ovunque e serrano la presa. Sono i piedi e le gambe a fare il lavoro di spinta. Salire vuol dire impegnare tutto il corpo, sfruttare al massimo la mobilità articolare e lavorare con più fasce muscolari. E con i sensi: la vista per calcolare le prossime mosse, il tatto per trovare fiducia nella parete. Mentre la mente è sempre attiva per ogni imprevisto, perché basta niente per scivolare, la mano non tiene o il piede perde aderenza, e si va giù.

È uno sport estremo, una sfida alla forza di gravità. Ma cadere vuol dire resettare tutto e avere la possibilità di ripartire. In questo è anche uno sport molto democratico, aperto a tutti, senza limitazioni. Ognuno cerca il suo livello, raggiunge un limite e lo supera. Ogni volta si sposta l’asticella un po’ più su, in gara con sé stessi. È questo che sta attirando sempre più persone, che spinge a provare e riprovare, fino ad appassionarsi e fare dell’arrampicata il proprio sport d’elezione. Perché non c’è un’età giusta per iniziare, non c’è uno standard minimo da raggiungere per divertirsi. È così che l’arrampicata sportiva è uscita dalla nicchia. Uno sport relativamente giovane: la federazione italiana è nata solo nel 1987, mentre nel 2007 è arrivata la Ifsc (International federation of sport climbing), e dal 2021 è anche uno sport olimpico, con un grande successo a Tokyo e Parigi.

Negli ultimi dieci anni l’arrampicata sportiva è cambiata moltissimo: da attività per pochi intimi, praticata soprattutto sulla roccia, è diventata uno sport a tutti gli effetti, praticato nelle palestre di tutte le città. «È l’unica cosa che mi permette di non pensare a niente», dice Stefano, uno dei tanti giovani amanti dell’arrampicata sportiva. «Quando arrampico è come se fossi in una bolla e quindi penso esclusivamente al movimento che devo fare, anzi a volte non penso neanche a quello, quando sei su riesci a scollegarti, lo usi per staccare, come una via di fuga». Se è vero durante la salita ci si può isolare, in realtà l’arrampicata si è sviluppata come disciplina con un forte spirito comunitario. «Ci si vede in palestra, ci si muove in gruppo, mentre uno sale gli altri sono in attesa sotto la stessa linea, e poi nei momenti di riposo tra un tentativo e l’altro si chiacchiera molto, su movimenti da fare o di tutt’altro».

Incontriamo Stefano tra i percorsi colorati della Solid Climbing, palestra di Buccinasco, a sud-ovest di Milano. Qui ha perfezionato i movimenti e la tecnica, ha adattato il fisico agli sforzi ripetuti e mai uguali del boulder – o sassismo, in italiano, la disciplina che consiste nell’arrampicare su vie di circa cinque o sei metri, di diversa difficoltà, senza corda né imbrago. Il boulder è la sua specialità, fatta di movimenti concatenati e dinamici, tutti esplosività e forza. La differenza con l’altra disciplina principe dell’arrampicata sportiva, il lead, è macroscopica, perché nel lead la caratteristica principe è la resistenza, per lo sforzo prolungato necessario a scalare una parete di una ventina di metri (qui sì che ci sono le imbracature).

L’arrampicata è una sfida costante ai propri limiti. È per questo che si ritrova perfettamente nella storia e nella brand identity di Sector No Limits – che aveva dedicato un modello al pioniere dell’arrampicata libera Manolo Zanolla, il Mago delle Dolomiti. «La gradazione delle difficoltà di ogni percorso è un invito a superarsi, o anche a testare il proprio livello di forma», dice Beatrice, che si è avvicinata all’arrampicata con il lead e poi è rimasta affascinata anche dal boulder. «Spostare l’asticella sempre un po’ più in là è il senso di questo sport, tutti gli arrampicatori vogliono scavalcare un limite, geografico o personale che sia. E anche quando raggiungi l’obiettivo che ti eri posto non ti fermi, passi al successivo. I limiti sono talmente alti per le persone normali come me che non c’è un traguardo ultimo, c’è sempre qualcosa da provare e non ci si accontenta mai».

Per la Next Generation dell’arrampicata sportiva il claim di Sector sembra stargli addosso come un abito cucito su misura. È per questo che No Limits è ancora attuale tra i più giovani dopo decenni di storia. Si sposa alla perfezione con chi conosce il valore dello sport come antidoto al grigio della monotonia. Vale per chi arrampica in palestra e per chi preferisce la montagna, indifferentemente. In ogni scalata i movimenti sono sempre diversi, i gesti tecnici cambiano, sempre una sfida nuova con la parete e con il proprio corpo, con la flessibilità muscolare, con la tenuta della mano sull’appiglio, con il core addominale che deve garantire stabilità e controllo su tutti i movimenti.

Ci sono molti modi per essere bravi, nell’arrampicata. C’è chi è più forte sulle braccia, e da lì trova equilibrio e certezze. C’è chi è molto esplosivo e ha gambe sempre pronte. C’è chi è più bravo a leggere una via, a leggere un blocco, a calcolare il percorso migliore per il proprio fisico. Il cervello degli arrampicatori è un computer sempre in funzione, elabora, calcola, stima. «Il boulder è un po’ più difficile nel movimento singolo e quindi somiglia un po’ a un problema matematico, cioè ti incastri con la mente in quella cosa lì», spiega Beatrice, che preferisce misurare ogni gesto piuttosto che buttarsi e tentare senza costrutto per vedere l’effetto che fa. «Io mi reputo un po’ più fissata con lo scalare bene piuttosto che scalare forte», dice. «Ad esempio, mi concentro sempre sull’usare bene i piedi: chi è alle prime armi lo vedi, perché tende a scalare appoggiando tutto il piede alla parete senza usare le punte. Adesso mi concentro moltissimo per muovermi bene sugli appigli più piccoli, sull’avvicinarmi il più possibile alla parete, riconoscere subito qual è il piede giusto da usare in una certa situazione, e in generale capire come fare meno fatica possibile per avere il minimo sforzo e la massima resa».

Quest’ultimo è un aspetto fondamentale, anche perché tutti i climber devono fare i conti con la “ghisa”, la sensazione di stanchezza degli avambracci che permette di aprire e chiudere le mani come si vorrebbe, e al senso di fatica universale che si prova dopo tanto allenamento in uno sport così completo. Tutti, in qualche modo, trovano una strada per passare sul dolore: «L’arrampicata non va in pensione, non ti fermi mai. Diventa un’ossessione dopo un po’, in senso buono. Perché anche se non sei proprio al top della forma, lo fai lo stesso. Sempre per quell’idea di voler progredire ogni giorno di più, che secondo me è un incentivo a tentare ancora e ancora un percorso quando non riesce, e poi passare al successivo, sempre più difficile», aggiunge Beatrice.

È un discorso di sostenibilità, quindi. È l’aspetto su cui si concentra di più Federico, scalatore “di cordata” abituato più alla roccia delle montagne che agli appigli della palestra. «È una disciplina dove, oltre a dover andare su, devi pensare a quanto potrai andare su e quindi fin da quando inizi capisci subito che ci sono delle strategie, ci sono dei metodi su cui focalizzarsi per risparmiare energia e fare in modo che la scalata diventi sostenibile, cioè nel senso di poterla fare», spiega. Ma la sostenibilità, specie per chi preferisce la montagna, è anche quella ambientale. Ed è un altro elemento chiave del legame della Next Generation di climber: un rapporto privilegiato con la natura e con gli elementai che disegnano i percorsi.

Da Undici n° 62
Foto di Andrea Lops
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