C’è una cosa che affascina delle farfalle: un giorno sei la più bella, il giorno dopo non esisti più. Tutti ti ammirano ma nessuno si ricorderà di te, condannata dalla fugacità e dalla fragilità della tua condizione. E anche le più longeve non superano l’anno di vita: non ce n’è una che abbia visto i verdi prati di Wimbledon più di una volta. Una farfalla, insomma, è un lampo di bellezza impalpabile, la scia di una meteora che si esaurisce in pochi istanti. È Coco Gauff che vince il Roland Garros e un mese dopo esce di scena al primo turno dei Championships. Ecco, il tour del tennis femminile, oggi, sembra proprio un giardino pieno di farfalle. O un regno senza la sua regina, se preferite: è dal tramonto di Serena Williams che il trono è rimasto vacante. Nessuna è stata in grado di prenderne il posto in maniera duratura.
Negli ultimi vent’anni, per dire, i quattro Slam hanno visto trionfare 34 tenniste diverse. Nello stesso periodo, i vincitori degli Slam maschili sono stati appena 12. Lì dove c’erano i Fab Four, oggi ci sono Sinner e Alcaraz. Con buona pace dell’inconcludente generazione degli invisibili, quella di Zverev, Medvedev, Tsitsipas. Nel femminile, invece, arrivare ai vertici è diventato più facile. Ma restarci sembra un’impresa. Credevamo potesse essere l’era di Iga Swiatek, che a 24 anni ha già collezionato cinque trofei dello Slam ma che adesso, a seguito di un lungo periodo di crisi, sembra aver smarrito la sua luce. E se il 2024 è stato l’anno di Aryna Sabalenka, campionessa in Australia e allo US Open, in questa stagione la numero uno al mondo ha già perso – contro pronostico – in finale a Melbourne, dove difendeva il titolo, a Indian Wells e al Roland Garros.
Insomma, tra le donne del tennis, oggi, non esistono legacy continuative. Ma esistono tante one season wonders. Spesso addirittura one tournament wonders. E non è un’esagerazione: ricordate Bianca Andreescu? Vinse lo US Open del 2019 ad appena 19 anni. Oggi è numero 146 del ranking. Emma Raducanu trionfò sempre a Flushing Meadows due anni più tardi, da numero 150 del mondo: è rimasto il suo unico titolo vinto. Marketa Vondrousova, nel 2023, è stata la prima tennista a vincere Wimbledon senza essere tra le teste di serie a inizio torneo. Adesso, complici anche alcuni infortuni, è scivolata al 73esimo posto del ranking.
Problemi fisici o meno, l’unica costante del tennis femminile sembra essere l’incostanza: in poche, pochissime, riescono a mantenere alto il livello per più di una stagione. In troppe, anche dopo aver vinto titoli importanti, cadono velocemente nell’oblio. «Il fatto è che ci sono tante buone giocatrici, ma mancano campionesse di spessore in grado di dare continuità a certi risultati», racconta a Rivista Undici Raffaella Reggi, ex numero 13 del mondo. «Abbiamo tenniste che fanno fatica a gestire la pressione, gli occhi addosso, magari anche il peso di sponsor importanti. Mantenere alta l’asticella a livello mentale sembra oggi un ostacolo più insormontabile di eventuali infortuni». Tant’è che sono sempre di più quelle che decidono di prendersi una pausa dal tennis, anche nel pieno della carriera. Ha fatto rumore il caso di Amanda Anisimova, semifinalista al Roland Garros nel 2019 a soli 17 anni, che nel 2023 aveva annunciato uno stop a tempo indeterminato per far fronte ad alcuni problemi di salute mentale: «Per me è diventato insopportabile partecipare ai tornei», aveva scritto in poche righe sui suoi canali social. Il ritiro, per fortuna, è durato poco: quest’anno l’americana ha vinto il suo primo 1000 a Doha ed è arrivata a ridosso delle prime dieci posizioni. La stessa Naomi Osaka, ex numero uno al mondo e vincitrice di quattro tornei Slam, si era ritirata dall’Open di Francia nel 2021 per ragioni simili. Alla vigilia del torneo aveva definito le interviste post-partita simili a «prendere a calci le persone quando sono a terra». Per questo motivo è arrivata a soffrire di depressione.
«Per preservarsi non bisognerebbe mai leggere niente. Poi c’è chi l’affronta con una risata e chi invece la vive in maniera diversa», prosegue Reggi. «Io non ho mai pensato di ottenere chissà quali risultati o di trovarmi quasi a ridosso delle prime dieci del mondo. Giocare era una passione, un divertimento. Poi certo, in campo ci andavo per vincere e se perdevo mi giravano anche. Ma riuscivo a viverla con una certa leggerezza, questo macigno sulle spalle non l’ho mai avuto. Sicuramente oggi, rispetto al passato, c’è molta più visibilità e molta più pressione, e anche i social giocano un ruolo determinante».
Poi accade che, puntualmente, a fronte di un numero sempre crescente di giocatori e giocatrici a rischio burnout, si finisca per addossare la colpa ai soliti calendari troppo fitti. Solo che «nessuno ha una pistola puntata alla tempia», spiega Reggi. «Certo, ci sono degli obblighi da parte di ATP e WTA, ma uno può scegliere quanto giocare, senza per forza disputare 30-32 tornei all’anno. Manca la capacità di gestirsi, il non dover per forza giocare perché il sistema te lo impone. Cioè tu puoi scegliere: se non te la senti ti fermi, senza arrivare necessariamente al burnout».
Oggi il tennis femminile vive un momento di stallo in cui nessuno è riuscito a raccogliere l’eredità di Venus, Serena o Maria Sharapova. La competizione non manca, così come non mancano le ottime giocatrici – anche se spesso troppo fragili. «Ma non ci sono più i personaggi, quelle rivalità sentite che avvicinino la gente. Lo spettacolo», dice Reggi. Le immediate conseguenze sono stadi e palazzetti spesso semivuoti, indici di un interesse sempre più in calo. «Anche perché», conclude Reggi, «oggi giocano un po’ tutte allo stesso modo, con uno stile standardizzato. Noioso. Sembra che tutte scendano in campo soltanto per tirare sempre forte e basta. Proprio per questo, però, ci sarebbero ancora ampi margini di miglioramento, per riportare il tennis delle donne dove merita». È una metamorfosi necessaria purché non sia solo kafkiana: la vittoria è l’unica cosa che conta, è vero, alla fine si gioca per questo. Ma quanto te la godi realmente nel corpo di una farfalla?