Ci sono poche figure nello sport italiano che, come Federica Pellegrini, possono affermare di essere un’istituzione: lo dice la sua carriera sportiva, lo dicono i suoi primati e i suoi successi, ma lo dice anche la sua storia personale, il modo in cui ha saputo essere un esempio, un’ispirazione. Ancora oggi, lontano dalla vasca, Federica porta avanti la sua narrazione di donna che pensa in grande: lo dimostrano la Fede Academy, avviata con il marito Matteo Giunta, i suoi ruoli istituzionali da membro del Cio e non solo, e in generale l’idea di portare la sua straordinaria storia sportiva su binari nuovi e inesplorati. Molto di questo converge con la collaborazione con Nike e Nike Swim, di cui è Brand Ambassador: «È un collaborazione che è nata in un momento giusto, di cambiamento per me», ci dice. «L’amore per l’acqua per me è una cosa imprescindibile, ma la piscina non fa più parte del mio quotidiano. Quindi sono passata da una vita di high performance a una vita sportiva diversa, pur mantenendo i valori di sempre».
Incontriamo Federica Pellegrini nella sede di 3A, che distribuisce in Italia in esclusiva, tra dodici brand, anche Nike Swim: un’azienda leader in Italia con oltre 3000 clients e un imponente centro di distribuzione che arriva a smistare fino a dieci milioni di pezzi all’anno. La collaborazione con Nike riguarda anche il progetto già menzionato della Fede Academy, una scuola di nuoto all’avanguardia con sede a Livigno, che fonda il suo metodo di apprendimento sulla preziosissima esperienza della Divina in vasca.
Com’è passare dal ruolo di atleta a quello di insegnante?
È la cosa più difficile. Nella mia carriera sportiva ho avuto sempre degli allenatori molto rigidi, quindi passare dall’altro lato è incredibile. Anche perché a volte abbiamo a che fare con ragazzi piccolissimi, visto che iniziamo dai sette anni. È un modo per capire cos’è lo sport a 36o gradi: un conto è stare in acqua e viverlo sulla tua pelle, un conto è vivere tutto questo dal dietro le quinte.
Quali sono i principali insegnamenti che vuoi trasmettere agli allievi?
Quello che di sicuro non facciamo nella nostra Academy è raccontare favole. Anche se si tratta di bambini, devono capire che si trovano in un’accademia, non in un centro estivo. Quello che vogliamo far capire ai ragazzi è che a fianco al divertimento c’è la convinzione che il nuoto è uno sport difficile, fatto di dedizione di sacrificio, di dolore anche fisico. Quindi cerchiamo di bilanciare queste cose, in modo da far capire a questi ragazzi, già da piccolissimi, cosa significa un allenamento del nuoto ad altissimi livelli. Iniziano a pensare già come atleti con la a maiuscola. E poi crediamo moltissimo in una cosa fondamentale.
Quale?
Che il nuoto è un lavoro di squadra, anche se si tratta di uno sport individuale. Per esempio, crediamo tantissimo nella salute mentale. Abbiamo una tutor/psicologa che li segue da subito durante tutto il camp e credo che siamo l’unica Academy a mettere una figura del genere a disposizione degli allievi. È un tema su cui sicuramente ci sono da fare moltissimi passi in avanti a livello di consapevolezza generale. Le nuove generazioni sono molto più sensibili di come noi eravamo alla loro età. Perché sono esposti 24 ore al giorno sui social, perché devono fare i conti con una pressione eccessiva, e in questo molto spesso sono anche le famiglie a farlo, sbagliando. E secondo me una figura del genere è fondamentale non solo per i ragazzi che si approcciano allo sport, ma per tutti, dovrebbe essere qualcosa da inserire anche nelle scuole. Poi ci sono anche regole comportamentali che cerchiamo di trasmettere: per esempio, nell’Academy i telefoni sono vietati nei luoghi comuni, possono utilizzarlo solo in camera la sera. Abbiamo visto un’evoluzione incredibile: all’inizio, tutti insieme, a stento si parlavano tra di loro, poi nel tempo hanno formato quel gruppo, quell’unione che per noi ex atleti è un salto nel passato.
E tu come gestivi la parte extra-sportiva quando eri molto giovane? Ricordiamo che hai vinto la prima medaglia olimpica quando avevi appena 16 anni.
Io sono sempre stata affiancata da una figura professionale di supporto mentale, sin da quando avevo sedici anni. Perché ne sentivo io il bisogno. Per me la cosa più difficile non è stata vincere la prima importante medaglia della carriera, perché con il talento, con l’allenamento, ci arrivi, ma mantenere quel livello. Perché poi arrivano le pressioni, e non sono solo quelle esterne, ma anche quelle che ti metti in prima persona. E poi non c’era solo lo sport, spesso avevo bisogno di parlare di temi personali, di cose che mi accadevano nella vita, cose che alla fine influenzano il tuo allenamento quotidiano o il giorno di gara. Per questo ancora oggi mi sorprendo di atleti che dichiarano di non aver bisogno di una figura come lo psicologo: è tornare indietro di vent’anni, è far passare il supporto mentale come una cosa negativa. Ma è un concetto profondamente sbagliato, soprattutto al giorno d’oggi.
Lo sport ti porta a sviluppare punti di vista, prospettive, in quest’ottica come in altre. In generale, ti insegna. A te cosa ha insegnato maggiormente?
Il reagire alle difficoltà. Nei momenti felici navighi a vista, non hai bisogno di cose specifiche. Ma quando ci sono le difficoltà, lo sport ti aiuta a rimanere focalizzato, centrato, con i piedi per terra. E ti dà gli strumenti per reagire.
Hai scritto pagine importanti dello sport italiano e al tempo stesso hai messo al centro lo sport femminile. Da donna, cosa pensi manchi ancora allo sport femminile rispetto a quello maschile?
Su tutto, la visibilità dei grandi appuntamenti. Io ho sempre vissuto in un’isola felice, perché il nuoto alterna gare femminili e gare maschili negli stessi orari, nella stessa vasca e così via, quindi è molto democratico da questo punto di vista. Però ci sono altri sport dove questo non accade. Secondo me deve essere proprio lo sport a dettare dei paletti, perché a volte ci troviamo con grandissime imprese al femminile che vengono rilegate ancora alla ventesima pagina dei giornali e non si meritano neanche la prima: quella è una cosa che ancora oggi mi fa male.
Con Milano Cortina vedremo dei Giochi olimpici con perfetta parità di genere: il numero di atleti maschili e femminili sarà lo stesso. Oltre a questo, saranno, per certi versi, i tuoi Giochi, perché disputati in luoghi molto vicini alla tua storia personale. E hai anche un ruolo duplice: membro del Cio e ambassador dell’edizione.
Sono molto orgogliosa. E anche un po’ invidiosa perché un’Olimpiade in Italia è qualcosa che purtroppo io non ho mai vissuto. I Giochi olimpici sono una cosa particolare, potente, se vissuta in casa è il massimo per un atleta. Saranno delle Olimpiadi belle ma difficili, perché poi saranno le prime Olimpiadi estese, quindi non le avremo solo in una città come è stato per altre edizioni. Ma la cosa importante è che si è cercato di dare i migliori campi gara agli atleti, e questa è la cosa fondamentale. E poi si tratta di un appuntamento importantissimo per il Paese, per come questa Olimpiade verrà raccontata sul nostro territorio, per la legacy che lascerà a livello di impianti, e poi per le nuove generazioni, per i racconti che si tramanderanno.
Oggi come fa sport Federica Pellegrini?
Oggi faccio prevalentemente sport in palestra, anche perché dopo la gravidanza avevo bisogno di recuperare una reattività fisica che avevo perso. Ma il nuoto continua a essere la mia casa, ogni volta che entro in acqua è un po’ un ritornare a casa. E lo è anche perché sto insegnando a mia figlia a nuotare».