A Wimbledon, dopo la vittoria nella partita d’esordio, Jannik Sinner l’ha chiesto al pubblico inglese, con un sorriso sudato: «Ma è normale che faccia questo caldo qui?». No, non lo è affatto. I primi giorni dei Championship sono stati i più torridi della storia, con punte vicine ai 35 gradi: in Italia è routine, a Londra una soglia biblica. Il cambiamento climatico bussa alla porta del torneo di tennis più famoso del mondo e genera sentimenti inediti: la pioggia era la nemesi di Wimbledon, invece mercoledì mattina viene salutata con sollievo. Le partite iniziano tardi, ma la temperatura scende di dieci gradi, si torna a respirare.
Prime cartoline pre-apocalittiche dall’All England Club: lo spettatore medio si aggira con in mano un mini-fan, un ventilatore tascabile; il ronzio leggero è entrato nel paesaggio sonoro del torneo. I ventagli ondeggiano furiosi con un moto coreografico sulle tribune scoperte. I ball kids fanno avanti e indietro, portando ai giocatori sacchi di ghiaccio, asciugamani bagnati, bibite e integratori. Bilancio parziale dei “caduti”: almeno tre malori nei primi due giorni, uno durante il tie-break tra Bellucci e Crawford, uno nel quinto set di Alcaraz-Fognini (con la spettatrice portata via in barella) e un altro nel quarto set tra Musetti e Basilashvili. Cinque le magliette cambiate dal povero Crawford nel match di lunedì (due nei primi sette games): a fine partita le t-shirt zuppe erano sparpagliate sotto la sua sedia come un quadro astratto. Quattro i banchetti informali di venditori di cappelli a tesa larga che hanno fatto affari d’oro su Church Street, la via del circolo.
Wimbledon vive nella sua bolla, è abituato a tenere il mondo fuori. È un luogo estraneo alle tensioni, la politica è bandita. Pensateci, quelli dell’All England sono tra i pochi stadi al mondo dove non è mai comparsa – e mai potrà comparire – una bandiera palestinese. Mentre all’esterno la casa brucia, qui si coltiva l’illusione di far scomparire il tempo e controllare tutto, dai millimetri di nero sulle divise bianche degli atleti (non più di dieci) a quelli dei fili d’erba sui prati (rigorosamente otto). Ma il cambiamento del clima non può essere ignorato, né controllato.
Il riscaldamento globale pone anche una questione pratica: cosa succede ai campi? Neil Stubley è l’Head Groundsman di Wimbledon dal 2012. La traduzione corretta è “capo-giardiniere”, ma non rende merito al suo lavoro da Mr. Wolf dei prati: è il primo responsabile dell’impatto estetico dell’erba più bella del mondo e della sua variabile decisiva, il rimbalzo. Gli strumenti di verifica sono molteplici e raffinati. La superficie del campo deve avere una resistenza compresa tra 170 e 220 gravies, per testarla viene “martellata” ogni giorno con uno strumento che si chiama Clegg Hammer. Se è troppo morbida produce un rimbalzo irregolare, se è troppo dura è un rischio per le articolazioni. Durante il torneo Neil e il suo team misurano il rimbalzo della palla 1.822 volte, l’indice di clorofilla delle piante 6.080 volte, la durezza del terreno 18.240 volte, l’usura del manto 31.200 volte. L’altezza dell’erba, inderogabile, è di otto millimetri. Splendido, ma come si concilia questa mania di controllo con gli eventi climatici estremi? Nei giorni del grande caldo, il capo giardiniere ha diffuso messaggi tranquillizzanti (e generici): «Tutto a posto, l’erba quest’anno è cresciuta bene e non ci sono criticità, dobbiamo solo annaffiare un po’ di più».
Mercoledì mattina l’abbiamo incontrato per approfondire, partendo dal vaticino nefasto del Met Office, l’ufficio meteorologico di Londra: per il futuro non esclude ondate di caldo lunghe mesi, con picchi di 45 gradi. Stubley però è un navigatore del presente: «Quest’anno non abbiamo dovuto cambiare il nostro approccio. Quando abbiamo picchi di caldo brevi, siamo ancora in grado di gestirli». Affronta il futuro un torneo per volta: «La tenuta dei campi in estate dipende dal lavoro di rinnovamento che facciamo a fine stagione, in agosto e settembre. In quella fase non ripariamo semplicemente i danni della stagione in corso, ma prepariamo i campi per l’anno successivo». Per cominciare, c’è un lavoro di ricerca sulle varietà d’erba. Dal 2001 i fili di Wimbledon sono esclusivamente di loietto inglese, Perennial Ryegrass. Presto potrebbero cambiare: «L’obiettivo» spiega Neil, «è selezionare specie più resistenti all’usura e alla siccità. Alcune di queste sono già utilizzate in altri paesi, possiamo adottarle anche qui. Se sarà necessario cambiare cultivar di loietto, ci faremo trovare pronti».
Come ogni istituzione globale, Wimbledon si è dato una serie di obiettivi “green” (che comunica con solerzia a giornalisti e imprenditori privati): emissioni zero entro la fine del decennio, riduzione e circolarità dei rifiuti, consumo consapevole di acqua. «Abbiamo iniziato a ridurre l’uso di fiori che richiedono molta acqua», spiega Stubley, «come le ortensie. Anche tra le piante ornamentali ci orientiamo su varietà più resistenti alla siccità. Inoltre usiamo un wetting agent, un agente che cambia la tensione superficiale dell’acqua, rendendola più accessibile alle radici anche quando il terreno è molto secco. Questo ci aiuta a ridurre sprechi e costi. Non ho le bollette, ma se si confrontano i consumi d’acqua di Wimbledon con altri sport, come il calcio, il nostro è nettamente inferiore. Siamo pronti ad adattarci, ma non vedrete mai i cactus all’All England Club», conclude ridendo.
L’erba è una living surface, ripete il capo giardiniere: risponde agli stimoli come gli altri organismi viventi. “Anche una variazione minuscola, un centesimo di secondo in più di contatto con il terreno, può fare la differenza a livello professionistico. Ma se arriviamo ai Championships con un campo in ottime condizioni, sarà in grado di adattarsi come un essere umano: se cambia il tempo, risponde. Se arrivano tre giorni di caldo estremo, e l’idratazione è stata fatta bene, l’erba saprà reagire”. E quando i giorni saranno di più, il tennis sarà tra gli ultimi problemi.