Wimbledon, lo Slam che non dorme mai

Nei sacri campi consacrati al tennis la vita scorre vivace anche fuori dalle due settimane dedicate al torneo più famoso che ci sia.

Il lavoro per preparare Wimbledon 2025 inizia all’incirca il lunedì, dopo la finale del 2024. L’erba è diventata un tratturo: per due settimane, attriti e ripartenze, scivolate e frenate col piede di traverso, come ormai sanno fare in tanti anche sulla superficie natia del tennis, hanno segnato a fondo e spesso rovinato i court come se li avesse attraversati una mandria di bufali in fuga dai predatori. Non ci sono trattamenti, rattoppi e risemine che tengano e quindi sì, chi ha la passione del post evento la può esercitare, per esempio, prenotando una visita all’All England Club non appena lo Slam ha smontato le tende e tutti se ne sono andati.

Il tour del perimetro più famoso nella storia del tennis è disponibile più o meno tutto l’anno: dalle dieci del mattino alle diciassette. Quindici sterline solo per il museo, ventisette con il giro annesso del club e c’è da dire che, al di là di appassionati incalliti e cronici, le guide sono attrezzate per raccontare aneddoti sconosciuti ai più. Tra le attrattive degli spazi riservati ai memorabilia, un ologramma di John McEnroe negli spogliatoi – è un McGenius con qualche capello bianco in meno – e, per chi è appassionato alla storia dello sport, gli abiti vittoriani delle prime vincitrici, dalla giunonica Dorothea Lambert Chambers alla minuta Lottie Dod che, al di là dei cinque titoli conquistati tra il 1887 e il 1893, il primo dei quali a quindici anni, ebbe il tempo di diventare campionessa di golf, di hockey su prato, di tiro con l’arco ed eroina del soccorso durante la prima guerra mondiale. Quegli abitoni spessi e costrittivi, quelle racchette che parevano mandolini sghembi segati male restituiscono non solo la passione molto british per la conservazione di quello che fu ma anche le inimmaginabili difficoltà di giocare a tennis quando venne inventato nella sua accezione contemporanea, centocinquant’anni fa, mentre oggi le racchette spaziali riescono a far palleggiare anche il più negato tennista della domenica. Accanto, le divise e i ferri del mestiere più iconici: le Nike di Sampras e la sua Wilson Pro Staff nera, le bandane di Federer e i completi col bordino dorato, lo smanicato di Nadal, la polo iperaderente di Bjorn Borg firmata Fila e la sua racchettina Donnay col grip in cuoio così lungo che pareva la dovessero impugnare in due.

Se New York è la città che non dorme mai, il sobborgo di Wimbledon ospita lo Slam che non dorme mai. Quando termina un’edizione del torneo, viene compilato un dossier di circa duecento pagine che lo Sports Turf Research Institute consegna ai giardinieri. Sono una serie di considerazioni sulla manutenzione del manto e di test che la squadra incaricata di salvaguardare il rettangolo verde più famoso del mondo deve iniziare a fare nei giorni intorno a Natale. Tra le miriadi di variabili da considerare per preparare il terreno per l’anno successivo, ci sono da tenere in conto le escursioni delle volpi: Wimbledon sorge non lontano dalla fermata Southfields e il nome tradisce la presenza di tanta flora e fauna, soprattutto dal lato opposto di Church Road dove si allarga il grande parco di Wimbledon. L’urina delle volpi è deleteria per il loglietto e la festuca, li fa seccare. Sono tutte cose che si possono imparare visitando Wimbledon lontano dal torneo. Dopodiché, esiste un lato naturalistico del sconosciuto agli appassionati: ci sono cinquantamila tra alberelli, fusti, cespugli, bulbi, piante e bordure da curare, sostituire se secchi, concimare. Il grosso dei lavori inizia al termine della stagione nella quale i soci dell’All England possono sfidarsi sui campi del club – salvo il Centre Court – e cioè verso settembre. Il calendario delle cose da fare per ricostruire i campi in tempo per l’edizione successiva è dettato, manco a dirlo, dal tempo. Ci sono anni in cui, a ottobre, piove pressoché tutti i giorni e i giardinieri sono al riparo, ad aspettare inutilmente che uno squarcio nel cielo permetta loro di recuperare un po’ del tempo perduto. La quantità di lavoro è monumentale: diciannove campi per lo Slam, altri ventidue per gli allenamenti. E, una volta fresati i rettangoli e ripristinato il fondo, bisogna seminare e far crescere l’erba prima dell’arrivo del generale inverno. Chi è bravo a fare i conti ha stabilito che, se giustapposti l’uno all’altro, tutti i campi di Wimbledon coprirebbero la superficie di Trafalgar Square. E non sono tutti uguali: alcuni campi sono figli degli ultimi rifacimenti e ristrutturazioni; altri, sono quasi vecchi come le prime edizioni del torneo.

A proposito: nei mesi lontani dal torneo, Wimbledon cerca di trasformarsi in qualcosa di altro. A fine novembre, per esempio, c’è una Winterfest dedicata a ciò che i londinesi non sono abituati a sperimentare: la neve. Botteghe che vendono souvenir di ispirazione alpina, sculture di ghiaccio, cose così. Quando il meteo annuncia le prime temperature notturne che rasentano lo zero, gli specialisti dei campi hanno già – pioggia permettendo – sparso un concime rinforzante per le radici e un fungicida per evitare che l’umidità faccia marcire i prati appena nati e, quando si avvicina la fine dell’anno, nella hall che porta all’ingresso del campo centrale – quella in cui campeggia la pluricitata frase di Kudyard Kipling sul trionfo e il fallimento che sono due impostori, e vallo a raccontare a Federer nel 2019 o a Roddick, sua vittima nel 2009 – viene montato un gran bell’albero di Natale. Se, invece, ad attirarvi sono festività di altre civiltà, due stradine più in là – in Calonne Road – sorge un enorme tempio Thai, il Buddhapadipa. Circondato da un giardino favoloso, all’interno è un’esplosione di colori e spiritualità. Vagando per viottoli e ponticelli, tra vegetazione esotica e senza alcuna interferenza della vicina urbanizzazione occidentale, è facile perdere l’orientamento temporale e il motivo per cui si è andati là.

Per chi non c’è stato, a Wimbledon inteso come evento sportivo, spiace rimarcare che fragole con panna sarà anche una tradizione ma le fragole cresciute da quelle parti, col sole pallido, sanno di cetriolo e quella che noi abbiamo tradotto frettolosamente con “panna” non è la crema di latte zuccherata e montata cui siamo avvezzi ma una cream dolciastra, liquida, che finisce in larga parte sul fondo di un bicchiere venduto con ricarichi inaccettabili. Meglio, quindi, tenersi quel po’ di fame e uscire da Wimbledon – inteso come All England Club – e cercare soddisfazione altrove. C’è un posto che si chiama La volpe e l’uva, The fox&the grapes, un gastropub nel quale la perfida Albione prova a farci cambiare idea sulle grossolane, quando non disgustose, abitudini alcoliche di quell’isola. La cucina è tendenzialmente internazionale, con qualche richiamo al territorio – l’agnello di Barnsley, il salmone del Galles, la torta di mele dello Yorkshire, una selezione di formaggi britannici. E una carta dei vini dignitosa, sebbene la fornitura migliore – la sfruttano anche molti ristoranti della city – è offerta da Wimbledon Wine Cellar, gestita da una quarantina di anni da Andrew Pavli. Un altro posto degno di visita è il Black Lamb, che ci tiene a essere definito local&wild per la preferenza per ingredienti poco lavorati o raffinati e, se possibile, ricavati da flora e fauna locali. Per nutrire altri organi vitali c’è una libreria molto ben fornita, si chiama Wimbledon Books e porta i colori del tennis (verde e viola) ma no, non vende solo quei tomi di statistiche che per decenni il Club ha sfornato sotto la direzione di Alan Little, per una vita bibliotecario e memoria vivente del torneo. Altre piccole chicche sono seminascoste nel Village, come la ristrutturazione di un pub del 1600, il Rose&Crown.

Se volete vedere come poteva essere un negozio di abiti e chincaglieria a fine Ottocento in periferia a Londra, per esempio, potete cercare Elys. O meglio, cercare le immagini dell’antica sartoria aperta da Joseph Ely e cercare di capire cosa è stato mantenuto del tailoring&outfitting inaugurato nel 1876. Non molto, per il vero: ma il magazzino sorge ancora all’angolo con Worple Road. Non vi dice nulla, quel nome? Percorrete la strada fino a imbattervi in una cancellata verde, che apre un muro di mattoni. Là c’è una placca che ricorda la prima edizione di Wimbledon, ospitata in quel terreno finché, nel 1922, l’All England non cambiò sede per questioni di capienza ed espansione. I primi campi di Wimbledon sono diventati prati per far giocare i ragazzi delle scuole medie ma, con un po’ di fantasia, si possono ancora vedere. Chiudendo gli occhi, fuori dall’orario della ricreazione, si riesce a sentire ancora il fruscio delle gonne delle antenate, inconsapevoli di essere in lotta per il trofeo più prezioso al mondo.

Da Undici n. 56
Foto di Paolo Araldi