Daniele Tinti è autore e conduttore – insieme al collega e amico Stefano Rapone – di Tintoria, un podcast che ha sfondato il muro delle 200 puntate e in cui è stata intervistata una grande fetta di personaggi del mondo culturale italiano. Le loro interviste sono fatte in modalità rilassata e a ritmo basso, l’esatto contrario di come Tinti vive lo sport. Durante l’ultimo Festival di Sanremo, per dire, Daniele non vedeva l’ora di chiedere a Noemi come avrebbe fatto lei con il match del giovedì della Roma, visto che doveva cantare. Con Giorgia, laziale, invece niente calcio.
Daniele Tinti cresce all’Aquila ma ama alla follia la Roma. Corretto?
In casa mia non esisteva nessun tipo di cultura calcistica e quindi mi sono dovuto creare tutto da solo. La prima partita in assoluto che ho visto allo stadio è stata Roma-Fiorentina dell’anno dello scudetto. Batistuta segna il gol decisivo e poi si mette a piangere. Ero con un amico più grande che mi aveva accompagnato e quell’anno non ci tornai più. Mia mamma però mi accompagnò alla festa al Circo Massimo: c’era una marea infinita di gente, tutti e felici e contenti, ho questa immagine nella testa. Sono passati tanti anni, adesso vado allo stadio tutte le volte che posso: sono abbonato nei Distinti Sud in Coppa. In campionato no, però mi sono pentito e il prossimo anno me lo faccio. Sto bene nel mio settore, è diventato un’emanazione della curva in cui tutti stanno in piedi e cantano.
Sei nato nel 1990, sei romanista, il tuo idolo può essere solo Francesco Totti.
Per me Totti è un idolo nel senso biblico del termine. Il giorno del suo addio ero all’Olimpico e non riuscivo a smettere di piangere: è stato lì che mi sono reso conto quanto contava lui per me. Se quando pensi a qualcuno provi solo amore, quella persona in cambio può darti solo amore. Sono felice di aver vissuto una cosa del genere – anche se non penso sia del tutto salutare – e sono convinto che non potrà capitarmi mai più con nessun altro perché bisogna che tutto nasca quando si è bambini.
Qual è il tuo ricordo più bello allo stadio?
Con la Roma è difficile rispondere perché ogni grande partita è stata una grande illusione. Dico Roma-Inter 2-1 con gol di Toni l’anno di Ranieri e dello scudetto perso, e poi Roma-Barcellona 3-0. Ero allo stadio ed è stato incredibile nel senso più reale del termine.
Il tifo viene anche consolidato dal dolore e dalle delusioni vissute insieme agli altri tifosi come te.
Gli anni in cui facevo le superiori il big match del campionato era Roma-Inter, noi eravamo forti ma perdevamo spesso. Ricordo le domeniche in cui prendevo l’autobus da l’Aquila, l’Inter ci batteva nettamente e poi riprendevo deluso l’autobus per tornare a casa. È accaduto due o tre volte.
Qual è stato il primo sport che hai praticato?
Sono cresciuto all’Aquila che è una città di rugby, e lì la normalità è che i bambini vadano a giocare a rugby. L’ho praticato dai nove ai 12 anni e poi ancora dai 14 ai 18. Mi sono sempre divertito e da adolescente sono arrivato a giocare a livello agonistico nelle giovanili dell’Aquila Rugby. Ci allenavamo dal lunedì al sabato e la domenica giocavamo la partita del campionato nazionale. Eravamo nel girono del centro Italia, c’erano due squadre di Benevento, Frascati, noi e poi tutte squadre romane.
Eri forte?
Giocavo ala e mi piaceva molto correre. Non sono mai stato forte ma ci sono stati dei periodi in cui mi ricordo di aver pensato che stavo capendo il gioco: avevo imparato a placcare, correvo con la palla in mano e capivo cosa dovevo fare insieme alla squadra. Il rugby è uno sport molto armonico perché ci si muove tutto insieme e allo stesso tempo si porta dietro il contatto fisico violento. Ho la sensazione che questo sport mi abbia dato molto di più di quello che gli ho dato io. Ero adolescente, svagato, per niente competitivo, e rimpiango di non aver messo negli allenamenti e nelle partite l’impegno che serviva. L’ho sempre preso alla leggera. Mi spiace non giocarci più, ma il rugby non è il calcetto che ci vai a giocare con gli amici. Se riprovassi adesso ne uscirei disintegrato.
Sei o sei stato anche un tifoso di rugby?
Alle superiori vivevo nel centro della città e al sabato andavo allo stadio a piedi a vedere l’Aquila Rugby come da tradizione. Dopo essermi trasferito a Roma ci sono stati anni in cui guardavo in televisione i campionati dell’emisfero sud e anche quelli inglesi. Adesso seguo la Nazionale e quando il lavoro me lo permette vado all’Olimpico a vedere il Sei Nazioni. Il rugby è anche diventato lo sport che unisce ancora me e mio padre. Era lui che mi portava agli allenamenti, vedeva le mie partite e poi insieme abbiamo cominciato anche a guardarlo in tv, sempre in compagnia di mia madre. Nel 2007 ci siamo fatti l’abbonamento a Sky per seguire i Mondiali e ancora adesso vediamo l’Italia insieme oppure la commentiamo. Solitamente è il calcio a tramandarsi di padre in figlio, mi piace avere uno sport diverso.
Hai appena terminato il tour di Crossover, il tuo ultimo spettacolo di stand-up comedy. Lo sport occupa una parte importante nella tua vita, eppure non lo porti mai sul palco.
Difficilmente parlo di sport nei miei monologhi, ma lo sport fa parte della mia vita da spettatore e da tifoso. Ho lo sport nella mia quotidianità e siccome quello scrivo è un’emanazione di quello che dico, qualcosa ci finisce. Ma non sono mai argomenti espliciti.
Anche a Tintoria avete intervistato pochi sportivi. In quasi 250 puntate è toccato a Gigi Datome e Matteo Berrettini.
Intervistare Berrettini è stato molto bello. Intanto perché ci siamo trovati davanti una persona brillante, simpatica e fortissima nel suo sport. E poi perché mi interessa provare a capire i meccanismi che regolano le menti così competitive, gente che è abituata a vincere o perdere ogni settimana di ogni mese della propria vita.
Se potessi scegliere tre sportivi da intervistare? Non valgono giocatori ed ex giocatori della Roma.
Jannik Sinner, Leo Messi e Brian O’Driscoll.
Stand-up comedian, podcaster, rugbista ma anche allenatore. Giusto?
Nel 2009 sono andato a fare volontariato a Nerebehi in Ghana. Col senno di poi si trattava di white saviorism ma a quell’epoca non esisteva il termine. Ho scoperto solo dopo di essere andato ad aiutare delle persone senza avere alcuna competenza. Tra le varie cose mi hanno messo ad allenare la squadra di calcio della scuola elementare in cui per breve tempo insegnai educazione fisica. Abbiamo giocato due partite e – non voglio fare l’Italiano – ce le rubarono entrambe. Nella prima l’arbitro era un insegnante della scuola avversaria e ci annullò un gol e si inventò un rigore; nella seconda l’altra squadra si presentò con dei presunti fuoriquota, io allenavo bambini delle elementari e arrivò gente con la barba. Non riuscii a finire quella partita perché svenni dal caldo infernale, avevo la malaria ma ancora non lo sapevo.
E il fantacalcio ti piace ancora?
Mi piace sempre. Ho solo una squadra dopo che in passato ne gestivo di più ma voglio concentrarmi nel modo giusto. Ho raggiunto la maturità per cui non mi faccio più rovinare il fine settimana se le cose vanno male, ma sono felice di farlo anche solo per scrivere battute o inviare un meme in una chat di amici che, pur abitando in parti diverse del mondo, possono ancora farsi compagnia.