Alcaraz deve inventarsi qualcosa, altrimenti Sinner cannibalizzerà anche la loro rivalità

La finale di Wimbledon è stata piuttosto chiara: tra i due re del tennis maschile c'è una differenza netta a favore di Sinner, e si fa fatica a capire come si possa colmare questo gap.
di Matteo Codignola
15 Luglio 2025

In uno degli spot di cui è protagonista, il fresco campione di Wimbledon definisce il tennis uno sport ad alta intensità. Che tutto quanto gli vediamo fare durante una partita lo sia è innegabile: resta da capire se si tratti ancora di tennis, cioè di un gioco che senza una qualche incertezza sul suo esito tende a somigliare a un’esecuzione sommaria – non precisamente lo spettacolo più piacevole cui assistere.

Sotto mentite spoglie, la finale di Wimbledon 2025 è stata precisamente questo – e a dispetto delle premesse, che tuttavia erano ingannevoli. Certo, Alcaraz aveva due titoli all’All England contro zero e aveva appena vinto sul rosso, tanto che molti ipotizzavano  una futura spartizione fra superfici organiche, dove avrebbe prevalso lui, e superfici acriliche, territorio esclusivo di Sinner. Inoltre, Alcaraz era in netto vantaggio negli scontri diretti: aveva vinto gli ultimi cinque, e l’ultimo in maniera – be’, l’aggettivo sceglietelo voi. Ma appunto, il lisergico trionfo parigino del mese scorso, di cui la finale di ieri veniva presentata come la rivincita, era in realtà una partita che Carlitos avrebbe perso in modo anche abbastanza netto, se il dio – o il demone – del tennis non si fosse impossessato del suo corpo, dettandogli una decina di colpi contrari a qualsiasi convenzione, anche fisica. Un evento portentoso, come no, ma che proprio per questo era difficile si verificasse di nuovo – almeno al momento opportuno, o per la durata necessaria.

E invece, anche se su scala ridotta, ieri si è verificato. Di nuovo. Sul finire del primo set, che con vivo disappunto e parecchi mugugni si avviava a perdere, Alcaraz ha tirato fuori dal solito posto cui ha accesso solo lui alcune magie – quel passante senza peso sul set point, in particolare – semplicemente ridicole. Solo che dall’altra parte aveva la Volpe, che come dice Archiloco sa molte cose. Una è che dopo aver vinto una frazione del genere qualsiasi tennista si prende un attimo di respiro, quindi se gli salti addosso in quel momento, e lo afferri per la gola, molto probabilmente lo soffochi. E infatti: break al primo gioco del secondo set, e partita capovolta, se non finita. È vero che, per finirla con Archiloco, il Riccio sa una cosa sola, però grande: ma non è detto che basti. Al suo meglio (e ieri, percentuali alla mano, non lo era) la Volpe non è superabile, per una ragione elementare: perché tira (molto) più forte, e quando serve anche (molto) più angolato di chiunque altro, Riccio incluso. In più è sempre nel decimetro quadrato giusto, e non sbaglia mai. Non c’è molto altro da dire, se non che dii fronte a una macchina da combattimento del genere, anche un tennis creativo e spesso stupefacente come quello di Alcaraz rischia di trasformarsi in un esercizio di futilità, e soprattutto di impotenza.

Forse è bene ricordarlo: oltre a perdere pochissime partite, spesso per la concomitanza di cause esterne, nell’ultimo anno e mezzo Sinner è apparso davvero in difficoltà solo due volte: nel primo set del Roland Garros 2024, contro Corentin Moutet, e nei quarti qui, contro Griga Dimitrov. Fanno tre ore in diciotto mesi, e in un certo senso non contano. In un caso aveva davanti un prestigiatore professionale (non è una battuta, se lo invitate a una festa di bambini Moutet si presenta in frac e valigetta, e alla fine stacca regolare ricevuta). Nell’altro, affrontava un puro virtuoso, che mai nessuno aveva visto giocare a quel livello. Qualcosa hanno dimostrato entrambi, e cioè che, giocato da fuoriclasse, il tennis a bassa intensità può fermare, e a tratti persino irridere, quello ad alta. Se vogliamo essere ancora più chiari, in un mondo immaginario Sinner potrebbe subire, e perfino arrendersi, a un gioco radicalmente diverso dal suo. Solo che nel mondo reale nessuno è in grado di produrlo, a parte i suddetti e, un paio di volte l’anno, Bublik il Matto.

In sostanza, anche se nel tennis tutto può cambiare molto in fretta, a luglio 2025 i tifosi di Sinner possono dormire tranquilli. Il dominio della Volpe lascia sgomenti persino gli spettatori – figuriamoci gli avversari. A Roma uno dei suoi colleghi più articolati, Casper Ruud, ha preso 6/0, 6/1 in 56 minuti – uno score che non ci si scambia spesso, fra Top Ten. Dopodiché, in sala stampa, ha fornito la sintesi fin qui più efficace del fenomeno Sinner: «He’s next-level shit». Lo pensano più o meno tutti, ma il problema della categoria non è l’apparente impossibilità di vincere, con la Volpe: è l’impossibilità di competere. Qui c’è un altro taglio netto rispetto al passato, persino con quello recentissimo. Anche coi Big Three all’apogeo nessuno vinceva mai, ma parecchi davano almeno l’impressione di arrivarci vicino. Poi certo, al momento buono quelli – soprattutto uno – ti guardavano, e il messaggio, inequivocabile, era sempre lo stesso: cerchiamo di capirci, mostrami un’incertezza e ti anniento. Sinner sembra fare lo stesso, alla prima che non entra ti toglie il servizio e ciao: ma lo fa e basta, senza passare dallo sguardo. Ed è tutta un’altra sensazione.

Quindi? E chi lo sa. Nell’immediato, molto dipende da Alcaraz: o si inventa qualcosa che ancora non abbiamo visto (frase che suona grottesca, visto di chi parliamo), o rischia di ritrovarsi a metà strada fra Sinner e il gruppo Ruud – una posizione scomoda, in cui certamente neppure immaginava di poter finire. Su un periodo un po’ più lungo, può darsi che João Fonseca bruci le tappe della maturazione, o che dall’inferno di chissà quale Academy, o dal pugatorio dei Challenger, spunti all’improvviso un fenomeno di cui oggi non sappiamo nulla. Dopotutto, in certi momenti non si capiva chi avrebbe mai potuto battere Laver, o Borg, o – ehm – Federer. Poi è successo, ma c’è una sfumatura che conta: allora non si capiva chi, appunto: oggi non si capisce come

Vedremo. Intanto il problema è tutelare al più presto la seconda categoria a rischio dopo i pro, e cioè gli spettatori – almeno quella piccola parte che in Italia ama il gioco, ma non si appassiona a un genere che sta prendendo molto piede, il reportage sulle sedute d’allenamento di Sinner – peraltro non sempre distinguibili dai suoi primi cinque o sei turni. Una prima misura empirica, che mi sento di suggerire, è capovolgere le abitudini di fruizione, almeno degli Slam. Guardare quello che si vuole della seconda settimana, certo, ma concentrarsi sulla prima. I risultati sono quasi garantiti, come abbiamo appena visto. Al di là di una certa benevolenza dell’allora campione in carica, Alcaraz-Fognini è stato il match forse più divertente del torneo, Sonego-Nakashima ha dimostrato cosa si intende quando si dice che il tennis tre su cinque è un altro sport, e Cilic/Draper ha esposto la sontuosa differenza – e viva la differenza – fra il tennis come gioco e il tennis come massacro. Questo senza tornare a Dimitrov/Sinner, un capolavoro incompiuto che rischiava di diventare, indipendentemente dal risultato, uno dei grandi match di sempre.

Oppure si può cambiare genere. Benché continui a essere oggetto di battutacce che fatalmente si ritorcono su chi le fa, il femminile offre spesso quel misto di pathos e bellezza che un tempo – prima che i maschi dimostrassero fino a che punto se ne può fare a meno – era ritenuto l’essenza del gioco. Di fatto, in un’immaginaria classifica dei dieci match più alti e spettacolari del torneo vanno senz’altro messe la vittoria di Sabalenka contro Mertens e la sua sconfitta contro Anisimova: e quanto alla scena di Swiatek che sul 6/0, 5/0, 30-0 della finale ancora ruggisce e agita il pugno verso l’avversaria, siamo dalle parti della letteratura, o per essere più precisi in quello che Antonin Artaud chiamava Teatro della Crudeltà. Senza contare che le danza trionfale con cui l’unica e sola (e sublime) Tatiana Maria è arrivata a vincere il Queen’s, rimane, a ora, il punto più alto della stagione. Vero, quello di Tatiana non è tennis, è arte. Ma in certi casi la differenza, sempre che ci sia, non si vede.

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