L’apnea non è solo uno sport estremo, ma anche un modo per conoscere se stessi, fuori e dentro l’acqua

Andare sott'acqua è un modo di meditare, una possibilità di conoscersi meglio, ma è anche una sfida che va oltre lo sport. Come nella filosofia di Sector No Limits, che aderisce alla perfezione a una nuova generazione di apneisti.
di Sara Canali 04 Agosto 2025 alle 03:05

Il cuore rallenta, i pensieri spariscono e intorno c’è il silenzio. L’apnea è qualcosa di più di uno sport: è diventare tutt’uno con l’acqua, che sia mare, lago o piscina. Umberto Pellizzari, uno dei più grandi apneisti italiani, capace di stabilire record mondiali in tutte le discipline, lo ha spiegato molto bene: «Il subacqueo si immerge per guardarsi attorno. Un apneista si immerge per guardarsi dentro». Un viaggio introspettivo, dunque, dove respirazione, meditazione e allenamento fuori dall’acqua hanno lo stesso valore di quello che si fa con le pinne ai piedi. Perché non basta avere il fisico: ci vuole soprattutto testa e concentrazione per risvegliare un istinto atavico, quello dell’esplorazione dei fondali, che appartiene all’uomo fin dalla notte dei tempi.

La scienza lo chiama “riflesso d’immersione” e riguarda gli adattamenti che, quando ci immergiamo, il nostro organismo mette in atto per ottimizzare le risorse a disposizione e resistere più a lungo di quanto non si riesca a fare fuori dall’acqua. Non stupisce che Sector, con la sua filosofia No Limits, abbia deciso fin da subito di abbracciare questo sport, accompagnando le sfide dei suoi ambassador. Come quelle degli atleti storici del Sector Diving Team degli anni Ottanta e Novanta, per i quali sono stati progettati orologi in titanio con un’impermeabilità fino a 1000 metri, capaci di supportarli nelle loro imprese.

E a distanza di anni da allora, la sfida non è terminata, la ricerca non si è conclusa. La voglia di andare oltre è più viva che mai. I primi apneisti si spingevano sott’acqua per effettuare la pesca in apnea e raccogliere conchiglie, oggetti preziosi o utili come il corallo, le perle o le spugne. «Da anni vivo in Madagascar sette mesi all’anno perché sono rimasto affascinato da una tribù di pescatori apneisti incredibile, arrivata dal Sud-est asiatico. Guardando loro, ho deciso di aprire lì il mio centro di subacquea e apnea». A raccontarlo è David, apneista che ha fatto della sua passione un lavoro. «I Vezo vivono lungo la costa sud-occidentale del Madagascar e trascorrono la vita navigando a bordo delle loro piroghe, seguendo il vento e le correnti, alla ricerca di banchi di pesci. Vivono in simbiosi con l’oceano e sono determinati a proteggerlo. Da quando hanno circa un anno e mezzo o due, i genitori li lasciano giocare in acqua e imparano da soli a immergersi. E questo è esattamente ciò che mi ha affascinato dell’apnea: la naturalezza innata e la ricerca dell’istinto che noi abbiamo perso», continua David, che ha approcciato l’apnea fin da piccolissimo quando, seguendo la madre che accompagnava i subacquei a fare immersioni in Egitto, ha cominciato a sperimentare la profondità. «L’apnea non ha a che fare solo con le immersioni, ma anche con la nostra routine: cosa mangiamo, come pensiamo, come ci muoviamo, come ci rapportiamo al nostro corpo per trovare la catarsi quando siamo sott’acqua».

Incontriamo David alla piscina Bustese Nuoto di Busto Arsizio, una cittadina della provincia di Varese che ha dato i natali agli apneisti più famosi d’Italia come Umberto Pellizzari, Gianluca Genoni e Gaspare Battaglia. Quest’ultimo, nel 2005, ha fondato la scuola di apnea Pianeta Acqua, che ha sede proprio nella piscina dove abbiamo incontrato i talent della Next Generation di questa disciplina. Qui, insieme a David, c’è anche Federica, figlia d’arte, che ha fatto della passione del padre la sua ragione di vita, conquistando due record italiani al lago di profondità, uno a pinne e uno con la monopinna. Oggi Federica vive e lavora in Egitto, dove insegna – inutile dirlo – immersioni. Con lei abbiamo cercato di capire di più sull’aspetto tecnico di questo sport e abbiamo imparato che dire “apnea” ha tante sfaccettature. «Ci sono varie discipline, che utilizzano diversi strumenti come le pinne per un movimento alternato o la monopinna, tipo sirena, che costringe a un movimento unico», racconta Federica. Si può praticare al mare o al lago, dove si ricerca la profondità liberamente o aggrappandosi a una corda, oppure in piscina, dove invece ci si muove in orizzontale, anche con le gambe a rana. Non solo: esiste pure l’apnea statica, in cui la sfida è restare fermi e immobili il più a lungo possibile.

«A livello tecnico c’è tanto lavoro da fare: anche una piccola differenza di postura può aumentare o diminuire l’idrodinamicità. Il lavoro a secco è fondamentale: imparare le tecniche di respirazione e rilassamento è imprescindibile per provare a migliorarsi sempre di più, un centimetro alla volta, senza limiti», dice Federica. «Personalmente, quando sono sott’acqua, vivo un profondo senso di pace che mi fa stare molto bene», dice Alessandro. Per tutta la vita si è diviso tra le gare di nuoto in piscina e la pesca subacquea in mare. Fattore comune? La testa sott’acqua. «Quando scendo in profondità non ho né maschera né occhialini, solo un tappanaso per compensare. Tengo gli occhi chiusi perché non conta il vedere quello che ti circonda, ma piuttosto il sentire quello che hai dentro. È una sorta di esplorazione per ritrovare se stessi, di autoconsapevolezza della profondità, dei battiti del cuore e del respiro».

L’apnea, insomma, è uno sport per tutti quelli che decidono di fare un compromesso con la pazienza e che hanno obiettivi a lungo raggio. Come Alessandro. «Ho notato che quello che imparo in acqua poi lo porto nella vita di tutti i giorni. Vivo più rilassato e calmo, respiro meglio, mi godo anche la lentezza. Per quanto riguarda i progetti futuri, so che ci vuole tempo, ma mi piace poter sfidare i miei limiti, sapere che posso migliorare ancora. Perché la mente è infinita».

Da Undici n° 63
Foto di Andrea Lops
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