Claudio Ranieri non è solo un gentiluomo, ma è anche un uomo di calcio che sa vedere e progettare il futuro

L'ex allenatore e ora dirigente della Roma è uno dei candidati per Aura Sport & Cultura Award.
di Redazione Undici 19 Agosto 2025 alle 09:25

Le parole più sentite dopo la sua ultima partita da allenatore, della Roma e in generale, Claudio Ranieri le ha riservate ai tifosi: «Sanno che di me si possono fidare e mi hanno aiutato, perché ci hanno accolto con amore». La gara con il Torino è finita da pochi minuti, la qualificazione in Champions League con la sua squadra gli è sfuggita di nuovo nel modo più crudele possibile – un punto, e furono tre nella stagione 2018/19, quando subentrò a Eusebio Di Francesco a 12 giornate dalla fine – eppure quello che parla ai microfoni di Dazn è un uomo sereno, che non ha più nulla da chiedere a se stesso e agli altri. E che, proprio per questo, può permettersi di andare oltre la delusione, le frasi di circostanza e le questioni di campo per concentrarsi su ciò che per lui ha sempre contato di più di tutto: la credibilità nei confronti della gente, qualcosa che non può essere misurata attraverso i risultati o i trofei, e che è legata al carattere di un uomo che, come raccontò in un’intervista a Undici realizzata pochi mesi prima che il miracolo Leicester prendesse forma, «la mattina ho bisogno di guardarmi in faccia senza dovermi sputare. È un’esigenza che ho sempre avuto. Una linea di confine. Non l’ho mai oltrepassata».

In questo senso l’affetto che Ranieri ha dato e ricevuto ovunque sia andato può essere considerato la cifra di una carriera lunga quasi quarant’anni e vissuta declinando una serie di principi non negoziabili: l’etica del lavoro, la chiarezza nei rapporti interpersonali, la coerenza nelle scelte, il rispetto della parola data. Tutto ciò che ha ottenuto l’ha ottenuto così, a modo suo, anche quando le cose sembravano andare fuori fuoco e fuori tempo e tutto lasciasse pensare che fosse arrivato il momento di smettere, trovando sempre il proprio posto all’interno di un calcio in perenne evoluzione nonostante alcuni anacronismi e la realtà di un dato anagrafico che non può essere aggirata o dimenticata.

E i fatti ci dicono che ha sempre avuto ragione lui: dopo la Grecia c’è stato il Leicester, dopo il Fulham la Sampdoria, dopo il Watford il Cagliari e la promozione all’ultimo minuto dell’ultima partita dei playoff che al momento del suo ritorno in Sardegna erano ben più distanti di quanto dicesse la classifica. E poi la Roma, l’amore di una vita, l’unica cosa in grado di farlo tornare indietro quando aveva già deciso di andare avanti, di voltare pagina: «Ho detto che sarei tornato ad allenare solo per la Roma e per il Cagliari. Ero convinto di andarmene per i fatti miei e che avrei guardato il calcio da un’altra parte. Evidentemente il fatto ha voluto che tornassi a casa: qui ho iniziato da calciatore e qui finirò da dirigente», disse nella conferenza stampa che ha dato il via all’ennesima impresa (im)possibile. Ventisei partite e 56 punti dopo – solo il Napoli di Conte che ha poi vinto il titolo ha fatto meglio nello stesso periodo – si è poi concretizzato l’ultimo atto d’amore, il più importante: Claudio Ranieri si è fatto da parte. O, meglio, ha chiarito perché sarebbe stato fondamentale per la Roma guardare davvero al futuro, proiettandosi in una dimensione diversa dal “qui e ora” incarnata da un tecnico che ha raddrizzato una situazione disperata ancora una volta ma che sa, lui per primo, di non poter essere la risposta alle domande che verranno poste da qui in poi.

Si è trattato di un messaggio potente, controculturale, un punto di rottura nella comunicazione istituzionale di un calcio italiano che nei momenti di difficoltà ragiona raramente nell’ottica di un’orizzonte temporale più ampio, tanto che il primo nome per sostituire Spalletti alla guida della Nazionale era proprio il suo. E, quindi, nel «non me la sento» fatto pervenire al presidente federale Gravina c’è tutto il Claudio Ranieri di ieri e di oggi, oltre che il motivo per cui è riuscito a farsi apprezzare così tanto e così a lungo in uno sport in cui dividersi, schierarsi, “odiarsi” (sportivamente) nello spazio di una partita e una stagione diventa una necessità, una questione di sopravvivenza; Ranieri è colui che fa le cose che vanno fatte così come vanno fatte, è l’uomo dell’etica senza le distorsioni della pratica, è quello che prende decisioni, anche impopolari, e le spiega anche a chi non è d’accordo perché la correttezza è dovuta anche a chi si trova dall’altra parte.

Per anni abbiamo pensato che Ranieri fosse “solo” l’ultimo cavaliere di un calcio ormai , l’allenatore che cerca di adattarsi a un mondo che non riconosce più e che, talvolta, lo mette in disparte perché non abbastanza adatto, non abbastanza “moderno”, e non solo per via della proposta di gioco; in realtà non c’è mai stato uno più contemporaneo di Ranieri, uno tra tra i pochi personaggi del nostro calcio a guardare al domani mentre tutti credevamo che cercasse di ritornare a ieri. Forse l’abbiamo capito troppo tardi, o forse no.


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