Investire all’estero per diventare attrattivi e richiamare capitali. Negli ultimi anni è stata questa la strategia di business sportivo condotta dal governo dell’Arabia Saudita, attraverso il progetto Vision 2030 voluto dal principe Mohammed Bin Salman. Il fondo sovrano PIF nel calcio si è comprato il Newcastle, diversificando però anche i settori ed impiegando ingenti risorse nel circuito mondiale del golf, del tennis e persino negli scacchi. Un metodo che spesso è stato tacciato di sportwashing, ma che sicuramente ha richiamato l’attenzione dei mercati internazionali.
Le maggiori spese sono state intraprese per sviluppare il calcio nella penisola. I club appartenenti al fondo e quindi di fatto al regno (Al-Hittad, All Nasr, Al-Hilal, Al-Alhy) hanno sconquassato il calciomercato degli ultimi, comprando campioni come Cristiano Ronaldo, Mané, Koulibaly e Benzema, solo per fare qualche esempio. Problemi di soldi non ce n’erano e quindi è stato facile soddisfare le richieste economiche delle squadre europee e garantire ingaggi faraonici. La crescita del livello medio della Saudi Pro League ha fatto sì che anche gli allenatori si interessassero al campionato arabo. Ultimo esempio, il passaggio in estate del coach vice campione d’Europa, Simone Inzaghi, dall’Inter all’Al-Hilal. Tutto il movimento è in rapida crescita e di conseguenza in Arabia sono arrivati anche i primi investitori dall’estero.
Come analizzato da As, l’Al Kholood è il primo club del regno con capitale completamente estero. Il gruppo statunitense Harburg Group, già azionista di minoranza del Cadice (con circa il 6%), è entrato nel calcio mediorientale. La transazione è stata supervisionata dal Ministero dello Sport saudita, ma le cifre dell’accordo non sono state rese pubbliche. Altre due società, l’Al Ansar e l’Al Zulfi, sono stati acquisite da aziende saudite, rispetivamente dall’Abasco e dalla Nojoom Alsalam Company, due tra le compagnie edili più influenti del Paese.
L’impatto di Harburg sulla squadra si è fatto sentire sin da subito. Cosmin Contra, ex calciatore di Alavés, Getafe e Atlético Madrid e allenatore tra le altre di Getafe, Alcorcón e della nazionale rumena, ha sperimentato in prima persona l’effetto della nuova proprietà americana. Ingaggiato a inizio luglio dalla precedente dirigenza, è stato esonerato dopo pochi giorni per far posto a Des Buckingham, coach di fiducia del gruppo Harburg. I nuovi padroni statunitensi hanno completamente ridisegnato lo stemma del club, cercando di dargli una nuova identità pur mantenendo le radici saudite.
Un cambiamento epocale in Arabia Saudita, che continuerà nei prossimi mesi. Il PIF attualmente detiene il 75% dei quattro grandi club (Al Hilal, Al Ittihad, Al Ahli e Al Nassr), mentre il restante 25% è di proprietà dei tifosi, che eleggono un presidente (molto spesso di facciata) incaricato di gestire la fondazione no-profit in capo a quella quota. Ora il regno sta valutando di vendere anche entrambe le quote. Una mossa strategica per attrarre investimenti privati o stranieri e portare liquidità nel Paese. Secondo quanto riportato dal Financial Times, il rallentamento degli investimenti nei mega-progetti causato da deficit di bilancio e dal calo del prezzo del petrolio, ha avuto un impatto negativo sull’economia del Paese. Questo rallentamento si riflette anche nello sport e in particolare nel pallone. Le quattro big della Saudi sono quindi aperte a finanziamenti esterni. Da almeno due stagioni, poi, i soldi sborsati da PIF non sono più a “fondo perduto”. I club devono gestire in autonomia entrate e spese. Ecco perché l’Al Ittihad, campione in carica, non ha fatto alcun acquisto di rilievo in questa stagione. Situazione simile per l’Al Ahli, fresco vincitore della Champions asiatica, che ha portato a casa solo Millot dallo Stoccarda per 25 milioni di euro. Un cambio di rotta, quindi, che toglierà il velo sul calcio arabo e mostrerà definitivamente lo status tecnico a cui è arrivato.